«LE NOSTRE SCELTE CAMBIANO LA STORIA»
intervista di Gerolamo Fazzini
«Davanti al male mi chiedo: cosa avrebbe fatto Gesù? Oggi è facile cadere nel cinismo, ma ciascuno può fare la differenza», dice l’attore protagonista di Rwanda, miglior film europeo dell’anno
«Chissà, forse se a vent’anni non fossi andato in ex Jugoslavia con gli scout oggi non sarei qui, sul red carpet nella capitale europea del cinema». Chi parla così è Marco Cortesi, interprete e co-sceneggiatore del film Rwanda, sul genocidio del 1994 (regia di Riccardo Salvetti, prodotto dalla Horizon Srl). Lo raggiungiamo mentre si trova a Parigi, dove il 7 aprile ha ritirato il premio assegnatogli dall’International Film Festival per il miglior film europeo del 2019. Un risultato strepitoso (primo fra 80 pellicole in gara, una quarantina di Paesi rappresentati) per una “produzione dal basso” nata quasi per scommessa.
Cortesi, possiamo parlare di piccolo-grande miracolo?
«Dopo 480 repliche in teatro di Rwanda, avevamo pensato di realizzare un video, poi s’è optato per una vera e propria fiction. Condivisa l’idea con la nostra community su Internet, abbiamo avviato il crowdfunding, che ci ha portato il doppio (30 mila euro) dell’obiettivo fissato. Ciò ha dato inizio a un effetto-domino virtuoso: sponsor privati e alcune Ong ci hanno dato una mano e siamo riusciti a realizzare il film, girando in Africa con una troupe di 30 professionisti, un cast di attori principali e 400 comparse».
Bisogna credere nei propri sogni…
«È stata una grande lezione di fede nella Provvidenza. Martin Luther King diceva: “Per fare il primo passo non hai bisogno di vedere tutta la scala”. Oggi invece ai giovani sembra mancare questo atteggiamento di fiducia. Incontriamo di frequente i millennials nelle scuole: ragazzi fantastici, ma spesso bloccati da ansia e timore, che hanno bisogno di aver tutto chiaro, dalla A alla Z. La vita non funziona così: bisogna partire, rischiare. Il resto arriva col tempo».
La tua (anzi: vostra) avventura artistica è nata così…
«Mi sono avvicinato al teatro partendo da un’esperienza di volontariato internazionale vissuta in ex-Jugoslavia con l’Agesci. Non avevo ancora vent’anni. Per alcune settimane abbiamo fatto animazione in un campo profughi a Pola, in Croazia. A contatto con gente che aveva perso tutto, siamo stati costretti a ripensare a ciò che davvero conta nella vita: io e i miei amici siamo tornati profondamente cambiati. Non solo. Ogni giorno sentivamo storie di guerra, terrificanti, ma, in mezzo a tante vicende tremende, ci venivano raccontate anche straordinarie esperienze di coraggio».
Da lì, qualche anno dopo, è nato uno spettacolo, Le donne di Pola. E tu hai cominciato a fare teatro civile in pianta stabile…
«Dopo un’esperienza di lavoro con la Rai, ho deciso di dedicarmi totalmente al teatro civile. Nel 2013 (l’idea è stata della mia compagna) abbiamo realizzato un nuovo spettacolo, La Scelta. E tu cosa avresti fatto?, tratto dal libro di Svetlana Broz I giusti nel tempo del male: sette testimonianze di atti di coraggio e solidarietà durante il conflitto bosniaco».
È di certo un messaggio ancora attualissimo…
«Le persone di cui parliamo ne La scelta hanno deciso di rischiare la vita, nonostante tutto, per aiutare un altro essere umano che sulla carta era un nemico. Hanno scelto, insomma, di fare la cosa giusta. Ebbene: alla luce anche di quelle vicende, non abbiamo scusanti per dire “non posso farci niente”. Il messaggio che ci viene da tante storie del passato è questo: ognuno di noi è molto più potente di quanto crediamo e può fare la differenza, cambiare la storia, mutare il male in bene. Oggi è facile cadere nel cinismo; in realtà sono convinto che la gente buona sia molta di più di quella cattiva: valeva ieri in Ruanda o in ex Jusgoslavia, vale anche oggi».
Sul palco siete sempre in due…
«Con me c’è Mara Moschini, anche lei di Forlì. Ci siamo incontrati a Roma: dopo essere diventati coppia nella vita, è nato anche il nostro “sodalizio artistico”, cementato dalla comune passione per il teatro civile. Entrambi siamo spinti dalla voglia di fare del nostro mestiere qualcosa che abbia un significato, per noi e per gli altri».
Infatti il vostro motto suona: «Vogliamo cambiare il mondo una storia alla volta». Cosa c’entra l’esperienza scout con il tuo modo di esprimerti?
«Sono stato scout per più di vent’anni e sono veramente grato a quel metodo educativo che ti insegna a non aver paura della fatica, a continuare a credere nonostante le difficoltà; un metodo che, grazie a Baden Powell, declina il cameratismo in chiave di fratellanza e perdono. Se non fossi stato scout, non avrei fatto questo lavoro».
Ci sono figure che hanno segnato il tuo cammino di fede?
«L’esperienza in ex Jugoslavia per me è stata causa di una forte crisi di fede: era una guerra di potere spacciata per conflitto religioso. Mi trovai allora a sognare un mondo senza religioni (un po’ alla Imagine di John Lennon). Poi ci capitò di tenere uno spettacolo sulla tomba di don Tonino Bello, ad Alessano. E proprio il confronto con la figura e il messaggio di don Tonino mi ha permesso di rimettere a posto i pezzi del puzzle. Grazie a lui ho capito che Dio è sempre lo stesso, al di là delle strumentalizzazioni degli uomini».
Cosa ti affascina di più della figura di Cristo?
Pausa di silenzio. «Rispondo con un aneddoto. All’asilo dove andavo da piccolo mi è rimasta impressa la figura di una suora, Margherita: non sgridava mai noi bambini ma, quando litigavamo, ci incalzava con una domanda sconcertante: “Che cosa avrebbe fatto Gesù?”. Ti metteva addosso un senso di colpa molto salutare (l’avrei capito molto più tardi…), regalandoci un’esperienza che mi ha segnato per sempre. Quel “cosa farebbe Cristo?” mi risuona spesso in mente. Mi chiedo: in presenza dei mercanti nel tempio, io avrei avuto il coraggio di mandare all’aria le bancarelle? Oppure di perdonare la prostituta pentita, sfidando il parere dei benpensanti? Gesù è uno tosto, vive in maniera militante la fede. Non era un vigliacco, ma uno che rischiava e diceva le cose in faccia ai potenti. Il medesimo coraggio lo ritrovo in papa Francesco. Anche chi non va in chiesa ne è conquistato: ha carisma e affascina perché si spende e non ha paura».
Tu sei di Forlì, dunque non puoi non avere familiarità con Annalena Tonelli, straordinaria figura di laica missionaria uccisa in Somalia nel 2003.
«Conosco bene Annalena (un mio compagno di classe era suo nipote) e la considero una martire del coraggio. Anche per questo Mara ha prestato la voce in un musical su Annalena che un gruppo di giovani legati alla diocesi ha messo in piedi nei mesi scorsi e che ora sta girando l’Italia con successo».
L‘ULTIMO SPETTACOLO. NON LASCIAMOCI INGABBIARE DALLA PAURA
Frutto di due anni di lavoro, Die Mauer ripercorre le vicende del muro di Berlino: «ma i vincoli veri sono dentro di noi»
L’ultimo testo teatrale scritto e interpretato dalla coppia Cortesi-Moschini è lo spettacolo-inchiesta, frutto di due anni di lavoro, Die Mauer sul Muro di Berlino. Lo spettacolo si chiude con un monologo che invita gli spettatori ad abbattere i muri interiori. «Siamo andati in Germania a intervistare molte persone che hanno vissuto sulla loro pelle quella tragedia, nel tentativo di ricostruirne fedelmente il contesto storico», spiegano i due attori.
«Ma quel che più ci ha colpito è stato sentire i testimoni affermare che il vero muro è dentro di noi», riprendono Cortesi e Moschini. «Alla domanda “Che cosa cercavi al di là del muro”, molti hanno risposto “la libertà di essere me stesso”. C’è, in altre parole, un muro che viene ancora prima di quello che spesso separa le persone (pensiamo al razzismo): è il muro dentro di noi, eretto dalla paura. Lo spettacolo invita a pensare alla propria vita, ai sogni, a quello che vorremmo diventare se non ci lasciassimo ingabbiare dai dubbi e dalla paura. La gente, spesso, esce in lacrime dal teatro, perché prende improvvisamente coscienza di sé e dei suoi limiti. Capita soprattutto ai più giovani, quando percepiscono di aver già rinunciato a tanti sogni per vivere nell’insoddisfazione e nella rabbia. Spesso ce la prendiamo con l’altro e il diverso perché, in realtà, siamo impauriti e arrabbiati con noi stessi, ma non riusciamo ad ammetterlo».
Conclude Cortesi: «Faccio parte di un gruppo di amici su Whatsapp. Vengono tutti da ottime famiglie, hanno un lavoro sicuro, qualcuno due auto. Eppure tutto il giorno è un piangersi addosso, quando invece, a un ragazzo ruandese, per essere felice basta sapere che la mamma sta bene. Abbiamo perso il senso della gratitudine. E questa è una malattia davvero pericolosa».
(Fonte: Credere - 18.04.2019)