L’Aquila: anniversario del sisma del 2009.
Dieci anni senza (il cuore della città)
di Giovanni d'Alessandro
«Dieci anni, Madonnamè», pensano gli aquilani con scoramento. Dieci anni 'senza'. Dieci anni dal 6 aprile 2009 quando il terremoto ha cambiato tutto all’Aquila.
Gli anniversari tondi, come questo decennale, portano una maledizione con sé, di spingere a un involontario consuntivo: si riesce magari a tenerlo a bada e ad allontanarlo dalla mente quando è il settimo, l’ottavo, il nono anniversario, ma col decimo no, perché il primo anniversario a due cifre rappresenta una scansione di vita che mette incontenibilmente in moto tutta una filiera di ricordi, di emozioni, di esperienze vissute; e un’altra ne attiva, di proiezioni su come sarà la vita, negli anni a venire.
Dieci anni 'senza' sono quelli in cui si sono fatti grandi i bambini di allora, tirati su gridando dalle culle o dai lettini dove dormivano alle 3 e 32 di notte, per portarli di corsa fuori di casa. Dieci anni sono quelli durante i quali se ne sono andati, sono morti, tanti vecchi che avevano sempre abitato nel centro storico – uno dei più estesi, tra le città di queste dimensioni, in Italia e in cui tra l’altro si verificava, a differenza che in altre simili città, il miracolo di gente normale che dimorava in case del XVI, XVII e XVIII secolo senza essere una fondazione bancaria o un ente. Vecchi che non ci riabiteranno più; vecchi riportati solo una volta lì, dalle 'new town' perché, se ci si avventurava con loro a cercare la vecchia casa, gli si arrossavano subito gli occhi a vederla così, senza nessuno dentro, tutta fasciata da ponteggi, grucce e tiranti. Dieci anni sono quelli di mamme e di papà che qualche volta hanno portato i bambini, nati nella cinta extraurbana, a fargli vedere da fuori la casa 'di città', dove quand’erano piccoli loro vivevano coi nonni; subito provocando nei nipotini, che in quelle case non sono mai entrati, la domanda se c’erano rimasti vecchi giocattoli dei genitori là dentro, da recuperare.
Sono dieci anni di ex allievi di scuole i quali cercano le finestre dell’ultima classe che stavano frequentando, in quella settimana precedente le ferie pasquali del 2009; di ex studenti filonari frequentatori di bar, con gli ingressi ora sbarrati da due assi incrociate di legno, i quali li indicano dicendo – col tipico ritmo imposto dal dialetto aquilano, così ricco di pause e di virgole poco grammaticali in italiano, ma che parlano la grammatica dell’anima: «Là dentro, io, mi ci appostavo, ad acchiappa’ le quatrane», ad acchiappare le ragazze.
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Le testimonianze dei sopravvissuti
Le testimonianze dei sopravvissuti
Petrocchi: non solo le case,
adesso occorre ricostruire pure le coscienze
Intervista al cardinale arcivescovo della città distrutta 10 anni fa dal terremoto. «Il processo di rinascita richiede attenzione, rispetto, intelligenza e carità per stare vicino a chi ha sofferto»
L'arcivescovo dell'Aquila, cardinale Giuseppe Petrocchi |
Non bisogna rimanere imbrigliati nella sofferenza del terremoto, ma fare in modo che questa diventi nuova energia seguendo l’esempio di Gesù. L’arcivescovo dell’Aquila cardinale Giuseppe Petrocchi, ieri ricevuto in udienza da da Papa Francesco, non nega che «il processo di recupero, di risanamento e di valutazione – questo è un deposito che da problema deve diventare una risorsa – è lungo e richiede figure attrezzate, non si improvvisa». Ma, ricorda, «richiede soprattutto un amore che sa pulsare all’unisono».
A che punto è la ricostruzione dell’anima terremotata degli aquilani?
Siamo ancora agli inizi: è dopo la prima fase traumatica che si comincia a percorrere le strade interiori, per cercare di incontrare ciascuno, come anche le comunità, nell’identità e nella storia che portano. Va tenuto presente, infatti, che il terremoto geologico e quello dell’anima hanno tempi diversi e modalità di espansione che si differenziano fortemente. Quando il terremoto geologico termina, si attiva lo sciame sismico interiore, che dura a lungo, decenni. Quindi non può essere calcolato con il calendario del terremoto che scuote la terra. Di conseguenza si può dire che la prima fase nell’accompagnamento del “terremoto dell’anima” sta nel cercare di raggiungere quei depositi di sofferenza, che si trovano sotto la soglia della coscienza e che spesso non è facile scoprire e aprire, perché si tratta di aree normalmente interdette. Dalla coscienza a queste cisterne profonde psichiche non si arriva in diretta, ma attraverso percorsi ripidi e spesso bloccati da cancelli. Per questo con immensa attenzione, rispetto, intelligenza e carità bisogna rendersi vicini, e possibilmente riuscire ad entrare in questi luoghi per condividere ricordi, emozioni, domande ed idee.
La prima terapia, infatti, è l’ascolto perché le persone hanno difficoltà a raccontarsi. La persona stessa trova difficile mettersi in contatto con il dolore che ospita in sé: spesso lo accantona perché questa sofferenza può diventare così intensa da destabilizzare la personalità e destrutturarla. Bisogna quindi aiutare la persona, accompagnandola a dialogare con questo patire che porta dentro, perché il dolore, anche se viene messo sotto chiave, continua ad agire. È come un materiale radioattivo: in modo invisibile e spesso non avvertito, fa danno e condiziona il pensiero, i sentimenti, le relazioni, il rapporto con il tempo.
Gli aquilani sono un popolo montanaro, resiliente, con una grande fede. Possono essere questi i mattoni su cui ricostruire la città?
Il carattere di un popolo è normalmente forgiato dalla sua storia e dalla geografia, perché l’ambiente che abita plasma il modo di rapportarsi con sé, con gli altri e con il territorio. La resilienza aquilana è legata a un ambiente severo e aspro, spesso ostile; gli abitanti sono quindi abituati a reggere le sfide e condizioni avverse. Però il carattere forte, se da una parte consente di rimanere in piedi di fronte agli urti e a eventi drammatici – come il terremoto –, dall’altra disegna psicologie introverse, perché si sa che il montanaro non parla volentieri di quello che lo agita nel cuore. Questo atteggiamento introverso non facilita il contatto della persona con il dolore che porta dentro, e non facilita il rapporto di condivisione interpersonale. Per questo bisogna avere un sovrappiù di intelligenza e di amore per farsi prossimi in senso fattivo; quando questo evento accade (ed è sempre segnato da una grazia speciale), c’è una sorta di liberazione e un riaprirsi alla vita con un’energia nuova. Il dolore non soltanto deve essere interiorizzato, ma va trasformato in una forza che edifica e dà nuovo coraggio.
Quale è il bilancio della ricostruzione di questi dieci anni. Si poteva fare di più?
La ricostruzione ha seguito due binari e due velocità. C’è la ricostruzione delle abitazioni civili, che si è mostrata più rapida ed efficiente, e quella pubblica molto lenta e poco capace di rispondere alle urgenze che venivano dalla popolazione. Questo “scompenso nel passo” è largamente dovuto all’impianto giuridico che è stato varato e che si è dimostrato, per molti versi, incapace di intercettare i bisogni della gente, traducendoli in termini progettuali ed operativi. A questo, si aggiunge il fatto che la burocrazia spesso ha determinato delle “paresi” procedurali. Se si fa un giro per le strade, e si osserva con attenzione, si vede che molto è stato fatto, ma tanto resta da fare. In questo “molto” c’è anche quello che dovrebbe essere già stato fatto e che non è stato compiuto. Insomma, c’è un bilancio con degli attivi, ma anche con deficit gravi. Basta pensare alla ricostruzione delle chiese, che è un capitolo dolente, perché ne sono state ricostruite poche e molte versano ancora in condizioni di degrado, sono ormai in stato di collasso. Se non si interverrà, bisognerà affrontare spese moltiplicate rispetto a quello che sarebbe stato necessario mettere in campo se i tempi fossero stati più rapidi e i percorsi più veloci.
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Quale messaggio vuole dare alla città per l’anniversario in questo tempo di Pasqua?
Agli aquilani chiedo di non rimanere imbrigliati nelle difficoltà e nelle sofferenze, che vanno riconosciute e non debbono essere impropriamente spinte nelle “periferie” spirituali e psichiche. Bisogna, infatti, trovare il coraggio per guardare in faccia ciò che non ci piace e che vorremmo non fosse mai successo. Proprio la Pasqua (che ci apprestiamo a celebrare) ci rivela che dentro ogni sofferenza e in tutte le difficoltà è entrato il Signore, che è diventato uno di noi e si è fatto carico della nostra condizione di precarietà e debolezza. E l’ha riscattata, perché essendo risorto, e avendo ucciso la morte, ci mette nella condizione di essere, come Lui, capaci di vincere il male. E quindi di vivere da risorti e rendere ogni croce un’occasione per entrare – con l’aiuto della grazia – in una pienezza più grande.
Leggi il testo integrale su:
Avvenire, articolo di Alessia Guerrieri venerdì 5 aprile 2019
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Intervista al Card. Petrocchi
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