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mercoledì 3 aprile 2019

L’insegnante, la suora e il bambino: la rivoluzionaria normalità


L’insegnante, la suora e il bambino: la rivoluzionaria normalità

Nell’epoca dei sensazionalismi e del pettegolezzo, a colpire è ancora la semplicità. Ne parlano in pochi, ma conquista molti: è il potere di una normalità rivoluzionaria. Come quella di un insegnante, di una suora e di un bambino.

Un maestro di matematica e scienze. È nei ricordi dell’infanzia di tutti noi, ma anche apparentemente molto lontano dal fare notizia. Colpa di una normalità che permette poche eccezioni. Proprio una di queste, però, si è imposta negli ultimi giorni: il conferimento del premio “Global Teacher Prize 2019” a padre Peter Tabichi, 36 anni, francescano del Kenya, come “miglior insegnante del mondo”. Uno dei motivi? Aver donato l’80% dello stipendio ai propri studenti perché potessero acquistare i libri di testo, pagare la retta scolastica ed evitare così l’abbandono precoce degli studi. «La scienza è la chiave per il futuro di questi ragazzi», ha sottolineato padre Tabichi, saio sempre orgogliosamente indossato. Una ricetta che funziona, tanto che i suoi studenti hanno già all’attivo importanti competizioni nazionali ed internazionali e un riconoscimento dalla Royal Society of Chemistry del Regno Unito.
E di denaro, ora, Peter Tabichi ne avrà da distribuire: il premio come miglior insegnante, infatti, ammonta ad un milione di dollari, messi a disposizione dallo sceicco Mohammed bin Rashid Al Maktoum, primo ministro e vicepresidente degli Emirati Arabi Uniti, nonché emiro di Dubai. Curioso passaggio di testimone di un capitale considerevole. Tanto più nella Rift Valley del Kenya, dove padre Tabichi lavora anche per riconciliare le diverse etnie della zona, per convincere i genitori a liberare le proprie figlie dalla costrizione dei matrimoni precoci e per insegnare metodi di coltivazione che possano conciliarsi con la siccità che sta colpendo il territorio. Combattendo, insieme, la piaga dell’emigrazione forzata. Libro e arnesi alla mano. La sua ispirazione? Il padre, Lawrence, ormai anziano, ma sempre «pieno di energia». Potere della normalità. «Questo premio non riconosce me, ma i giovani di questo grande continente», ha detto Peter Tabichi. «Questo premio dà loro una possibilità. Racconta al mondo che tutto è possibile».

Possibile almeno tanto quanto contribuire (anche) a far nascere quasi 4 mila bambini e sentirsi una persona qualunque. È la storia di suor Maria Concetta Esu, della congregazione delle Figlie di San Giuseppe di Genoni, 85 anni, 60 dei quali passati da missionaria in Africa. Come ostetrica, lavoro antico e prezioso. Senza pseudo-rivendicazioni di modernità o polemiche normative, ma in silenzioso servizio alla vita nascente. 
«Non ho fatto niente più degli altri», ha detto la suora al SiR. Un’esistenza umile e nascosta, trasformata nel 2015 dall’incontro con papa Francesco a Bangui, Repubblica Centrafricana, in occasione dell’apertura della Porta Santa del Giubileo della Misericordia. Quel giorno, ha ricordato mercoledì il Pontefice, suor Maria Concetta era venuta dal Congo in canoa, come suo solito, a fare compere per la comunità. Ora Francesco l’ha voluta accanto a sé per dirle grazie di una vita spesa nella testimonianza e per consegnarle piccoli, grandi segni di riconoscenza – una pergamena, una medaglia del pontificato e un rosario. 
Doni da estendere simbolicamente a tutti i missionari e le missionarie, sacerdoti, religiosi e laici, «che spargono i semi del Regno di Dio in ogni parte del mondo». Anzi, che «bruciano» la propria vita seminando la parola di Dio.

Esistenze in fiamme sono spesso, in senso opposto, quelle dei migranti, “bruciate” dall’indifferenza globale, che la lucida follia di un uomo avrebbe voluto vendicare togliendo altre vite innocenti. Nel racconto della tragedia sfiorata e delle immancabili, sterili polemiche, una storia a margine della storia ha fatto parlare di sé. In tanti hanno creduto di sentire gridare “Ti amo, io ti amo!” da uno dei bambini fuggiti dallo scuolabus dirottato lo scorso 20 marzo da Ousseynou Sy. Non la precoce dichiarazione ad una compagna di classe – le illazioni più o meno romantiche non erano mancate – ma un urlo di gratitudine a Dio. 
«Ti amo Dio, ti amo!», le sue vere parole, come ha raccontato lui stesso in un’intervista a Le Iene. «Sul pullman eravamo tutti disperati e anch’io ho voluto fare la mia preghiera e quando siamo riusciti a salvarci mi è sembrato che si fosse avverata quindi ho voluto ringraziare Dio e ho urlato “Dio ti amo”». Fede semplice, e a suo modo seria, di un bambino. Che per la Chiesa fa meglio sperare di molte parole e litigi, difese di compiacenza e incattivimento reciproco.

(fonte testo: Caffèstoria, articolo di Simone M. Varisco 01/04/2019)