ESCLUSIVO.
Migranti, così Roma comanda la Libia.
La verità sui respingimenti / Audio
Alcune registrazioni nelle comunicazioni interne tra Italia e Tripoli svelano anomalie e irregolarità che rischiano di trascinare le autorità italiane davanti alle corti internazionali
La nave Mare Jonio aveva soccorso 49 persone a 40 miglia dalle coste libiche il 18 marzo, poi aveva fatto rotta su Lampedusa a causa di condizioni meteomarine avverse. La nave aveva ricevuto il divieto (mai formalizzato) di avvicinarsi alle coste italiane, ma il capitano Pietro Marrone si era rifiutato: «Abbiamo persone da mettere in sicurezza, non fermiamo i motori». Poi alle 19.30 del 19 marzo i migranti erano stati fatti sbarcare a Lampedusa.
«Ma in questi casi non c’è una procedura?», domanda sbigottito un ufficiale italiano a un collega delle Capitanerie di porto. «No - risponde l’altro - è una decisione politica del ministro, stiamo ancora aspettando le direttive». Intanto, però, senza ordini formali la nave Mare Jonio subisce un tentativo di blocco. Poche ore prima, sulle linee telefoniche Roma-Tripoli, si era consumato l’ennesimo riservatissimo scaricabarile a danno dei migranti.
L’inchiesta giornalistica che viene pubblicata oggi in contemporanea da un pool di testate internazionali e per l'Italia Avvenire e Repubblica svela anomalie e irregolarità. Tra questi alcune registrazioni audio (disponibili sul canale Youtube di Avvenire) ottenute nel corso di indagini difensive, che rischiano di trascinare le autorità della penisola davanti alle corti internazionali che stanno investigando sui respingimenti e i morti in mare.
Sono ore convulse quelle tra il 18 e il 19 marzo, quando la nave italiana della Missione Mediterranea aveva a bordo 49 persone salvate nel Mar Libico. Una motovedetta della Guardia di finanza aveva intimato di fermarsi e spegnere i motori. Dopo lo sbarco a Lampedusa il comandante e il capo missione vengono indagati per aver disobbedito, ma ora emergono registrazioni audio e documenti che raccontano un’altra storia e su cui la procura di Agrigento vuole vedere fino in fondo, risalendo l’intera catena di comando fino al vertice politico.
L’ascolto di tutte le registrazioni audio e l’esame della documentazione lasciano sul campo molte domande. A cominciare da quelle sulla reale capacità della Guardia costiera libica di intervenire, ma che segretamente ottiene la supplenza di militari italiani.
Abbiamo ricostruito i momenti ad alta tensione con vite alla deriva, mentre tra Roma e Tripoli passano minuti e ore prima che qualcuno provi a darsi davvero una mossa. L’unica certezza è che bisognava fare il possibile perché non intervenissero i soccorritori della missione civile italiana.
Da Roma le direttive operative per Tripoli
Alle 13.25 del 18 marzo parte verso la Libia una telefonata da Mrcc Roma, il centro di coordinamento e soccorso della Guardia costiera presso il Ministero delle Infrastrutture. Risponde l’ufficiale di servizio a Tripoli che però non è in grado di comprendere le comunicazioni in lingua inglese. Ne nasce una conversazione tragicomica. Degna dei migliori Totò e Peppino spersi tra le piazze della grande Milano. Se non fosse per le 49 vite umane alla deriva nel Mediterraneo, più che da sorridere ci sarebbe da disperarsi. «Le passo l’ufficiale di servizio», dice al libico in ottimo inglese un militare italiano che da Roma sta per porgere la cornetta al suo superiore. Ma il libico non capisce: «L’ufficiale di servizio sono io», ribatte. Da Roma cercano di non perdere la pazienza: «I’m passing you our duty officer», spiegando di nuovo e lentamente che al telefono sta arrivando «l’ufficiale di servizio della guardia costiera italiana». Non c’è verso. Il guardacoste libico sembra perdere le staffe: «Sono io l’ufficiale di servizio», scandisce nel suo inglese stentato, dopo avere però avvertito che la lingua di Shakespeare la parla solo «a little». Troppo poco per gli standard internazionali stabiliti per chi deve gestire situazioni d’emergenza.
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Caccia all’interprete
Da Roma vogliono sapere se Tripoli prenderà in carico il coordinamento delle ricerche e del soccorso del gommone perché, come quasi sempre accade, i libici non avevano risposto alle richieste d’aiuto e perché quando intervengono lo comunicano di rado e a cose fatte. Anche questa volta la cosiddetta Guardia costiera libica non aveva neanche afferrato il telefono per rispondere alle segnalazioni di Moonbird, l’aereo dell’Ong Sea Watch che aveva avvistato il barcone e fornito le coordinate già nella mattinata, ma senza ricevere alcuna risposta. Vista l’impossibilità di intendersi, all’ufficiale di servizio italiano non resta che contattare con urgenza un interprete che, in conferenza telefonica, cercherà di spiegare in arabo al militare libico quale fosse la ragione della telefonata da Roma. Si perdono così minuti preziosi, con il guardacoste di Tripoli che arriva a dire di non sapere «se ci sono motovedette libiche che stanno intervenendo, se sono partite, da quale porto e verso quale rotta si stiano eventualmente dirigendo». Al contrario il comportamento dell’ufficiale italiano presso Mrcc appare impeccabile. Il militare si sforza in ogni modo di farsi comprendere e di rendere chiare le indicazioni e nel corso di successive comunicazioni sembra quasi battersi per avere certezza che qualcuno stia occupandosi dei disperati in mare.
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Che ruolo ha la Marina italiana in Libia?
Se già in passato in molte circostanze era apparso chiaro che la cosiddetta Guardia costiera libica non è in grado di gestire l’area di ricerca e soccorso registrata con il sostegno economico e logistico dell’Italia, adesso si ripropone un nuovo interrogativo: chi coordina davvero le motovedette regalate dall’Italia a Tripoli?
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Avvenire, articolo di Nello Scavo 18/04/2019 (pagina esterna)
A seguire l'editoriale di Marco Tarquinio (18 aprile 2019)
Vergogna svelata, umanità urgente
Dopo i tweet, le cannonate. Non quelle in corso tra loro, tra i libici. Ma quelle impossibili: le nostre. Cannonate su persone inermi, ma colpevoli di emigrazione. Cannonate che abitano tweet e dirette social da anni, che esplodono in barzellette cattive e furibonde invettive, e corrono con le monumentali bufale che han fatto alzare e incattivire l’inusitato coro xenofobo che echeggia dall’Alpi al Canale di Sicilia. Ma non accadrà. Non può e non deve accadere. Deve piuttosto esserci una presa di responsabilità umanitaria, corale, senza tentennamenti, una volta tanto esemplare. Perché dovremmo prepararci solo ad aggiungere cannonate a cannonate, se avessero ragione Matteo Salvini e Fayez al-Sarraj. Se, cioè, davanti ai disperati di Libia, all’orda di «migranti, libici e terroristi» annunciata con enfasi, non ci fosse nessuna seria e generosa iniziativa euro-africana e ci fossero, invece, solo «porti chiusi».
Già. Porti chiusi. Lo slogan preferito di Salvini. Il ministro dell’Interno e faso-tuto-mi nel governo giallo-verde (Difesa, Esteri, Trasporti, Finanze, persino Presidenza... ) ha ribadito più volte a parole ciò che non sta scritto (come abbiamo acclarato su queste pagine) in nessun atto ufficiale, ma che a ogni “tragedia migrante” sventata nel Mediterraneo si realizza per le misteriose vie del potere che il segretario della Lega si è dato e che sino a ieri – negli ultimi giorni, per la verità, con sempre meno entusiasmo e più disagio – il Movimento 5 Stelle gli ha concesso: i porti italiani, appunto, «sono chiusi», anche se soltanto per richiedenti soccorso e asilo poveri e dalla pelle scura (per gli altri naturalmente no). Ho appena scritto “misteriose vie del potere”, ma da oggi lo sono un po’ meno. Ciò che oggi siamo infatti in grado di pubblicare, fatti e carte alla mano che il collega Nello Scavo (leggi sopra) ha verificato, disegna un quadro di decisioni politiche assunte senza trasparenza e senza legge, interna e internazionale. Un quadro pesante, tanto quanto i disumani respingimenti ciechi di richiedenti asilo compiuti in questi mesi dall’Italia. Respingimenti in maschera libica (cioè, a quanto va emergendo, per interposta e pilotata Guardia costiera libica) e in nome di una legalità proclamata, ma in realtà svuotata di sé. Sono umiliati gli alti princìpi del nostro civile ordinamento, sono invase – esse sì – le responsabilità di altre istituzioni da parte di un ministro dell’Interno propenso non solo, come si sa, a indossare giubbe e giubbetti dei diversi corpi dello Stato, ma anche a mettersi cappelli non suoi, persino quelli dei comandanti e capi di stato maggiore delle nostre Forze armate.
Contemporaneamente, negli ultimi giorni, il capo del governo che governa assai poco in una Libia che da otto anni come Stato non esiste più e non ha nemmeno ufficiali in grado di far funzionare la sua Guardia costiera (a quanto pare “commissariata” nei fatti immigratori da ufficiali italiani), ha annunciato che ottocentomila persone, cittadini libici e immigrati, alcuni pericolosi, starebbero preparandosi a fuggire verso l’Italia e l’Europa. Persone in fuga dalla guerra che nell’ex Jamairiya è tornata a divampare e che dunque non viene più combattuta a bassa intensità contro gli stessi poveri di cui sopra (i circa 65 mila immigrati attualmente tenuti nei “lager”), ma aperta anche contro i civili libici renitenti all’ingresso nelle milizie tribali, e sempre più apertamente, contro il comune senso di umanità. Se avessero ragione Salvini e al-Sarraj, non resterebbero, dunque, che le cannonate.
Che cos’altro con le logiche imperanti in Italia e in Europa, ma anche nella stessa Africa? Che cos’altro considerata l’indifferenza e il cinismo dei potenti del mondo? Solo le impossibili cannonate sugli inermi sembrano poter tenere insieme, con gli ovvi e fastidiosi effetti collaterali, il puzzle afroeuro-mediterraneo: guerra alla siriana in Libia, lager per profughi e migranti diventati contendibili, porti italiani chiusi, barconi stracarichi di uomini e donne e bambini lasciati alla deriva o andati a fondo, morti e dispersi, coscienze in subbuglio… E scandalo delle migrazioni senza regole e senza umanità rivelato nella sua tragica interezza. No, non può andare così. E si può metter la mano sul fuoco che nessun politico degno di questo nome e, soprattutto, nessun uomo o donna in divisa italiana si arrenderebbe a una simile follia.
Ma bisogna anche essere realisti. E mettere non la mano, ma gli occhi sul fuoco che divampa sulla sponda meridionale del Mare Nostrum. L’ultima volta che un allarme simile venne lanciato – dal ministro Alfano, ai tempi del governo Renzi – dalla Libia presero drammaticamente il largo verso nord a decine e decine e decine di migliaia. E poco dopo, quando al Viminale era già arrivato Minniti, scattò il piano di blocco della Libia “costi quel che costi” che si sviluppò in desolante contemporaneità con la prima campagna di criminalizzazione delle Ong umanitarie e che portò a stringere accordi assai onerosi coi “signori della guerra”. Capiclan, ribattezzati per l’occasione “sindaci”, ovviamente più che disposti a fungere da carcerieri ufficiosi e retribuiti (oltre che sfruttatori) delle persone “colpevoli” di reato di migrazione. E se al-Sarraj spara numeroni mentre il generale Haftar spara coi suoi cannoni e i capi delle altre milizie non stanno a guardare, si può essere certi che è perché sta preparando un supplemento di conto da pagare: politico, economico e militare. Usa i suoi stessi connazionali (come noto poco propensi a rischiare la vita in mare, e assai di più a riparare per un po’ nei Paesi vicini, Egitto e Tunisia) per ingrossare propagandisticamente le fila dei fuggiaschi. Profughi e migranti trattenuti in condizione terribili in Libia non sono infatti più di 65mila. Più o meno tanti quanti scapparono verso nord nel 2011, quando gli euroamericani fecero collassare il regime di Gheddafi.
Ma oggi ci sarebbero terroristi in gran numero, dice al-Sarraj. Mai visti, in realtà, terroristi rischiare la vita su fragili gusci che tentan la traversata del Mediterraneo. I pochissimi terroristi arrivati via mare e transitati per i centri italiani di identificazione sono – parola dei nostri 007 e degli altri inquirenti – personaggi “radicalizzati” e conquistati al jihadismo assassino strada facendo, dall’approdo in Europa in poi. Ma il rischio non può essere sottovalutato. Dunque, va evitato. Come? Come abbiamo suggerito più volte in questi lunghi e tragici anni e in modo pressante pochi mesi fa, unendo doveri di umanità e preoccupazioni di sicurezza e facendo eco alle voci sagge del mondo della cooperazione internazionale e ai promotori dei “corridoi umanitari” (Comunità di Sant’Egidio, Comunità evangeliche, Tavola valdese, Cei). Serve un grande ponte aereo e/o marittimo, e servono trasporti bene organizzati e protetti via terra. L’Italia, l’Unione Europea, l’Unione Africana, i potenti del mondo cooperino con le Agenzie Onu e organizzino il trasferimento rapido e sicuro fuori dalla Libia, in Europa e in Africa, di tutte le persone straniere a rischio lì trattenute. Le guardino in faccia. Le riconoscano.
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