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venerdì 31 ottobre 2025

Giuseppe Savagnone La festa di Halloween come esorcizzazione della morte

Giuseppe Savagnone
La festa di Halloween come esorcizzazione della morte


I vivi e i morti

All’evidente declino della risonanza sociale delle feste cristiane dei santi e dei morti corrisponde, in Italia come nel resto del mondo occidentale, la trionfale affermazione di quella di Halloween, ormai entrata nel costume e ben più sentita di quelle della tradizione religiosa.

Le sue origini sono antichissime e risalgono all’Irlanda pre-crisitiana. Veniva celebrata il 31 ottobre, che nel calendario celtico segnava la fine della stagione del raccolto e l’inizio dell’inverno. Questa festa, col nome di Samhain, già due millenni fa rappresentava un vero e proprio capodanno per le popolazioni delle isole britanniche, da cui poi, alla metà dell’Ottocento, con l’ondata migratoria verso gli Stati Uniti, fu portata oltre oceano, dove trovò ampia diffusione.

Secondo la credenza originaria, in questa giornata il mondo terreno e quello dell’aldilà potevano incontrarsi. Gli spiriti dei morti ritornavano nel mondo dei vivi e bisognava in qualche modo fronteggiarli, perché non sempre avevano un atteggiamento amichevole. Sulla più antica festa stagionale, legata ai ritmi della natura, si è innestata, infatti, la leggenda irlandese del malvagio fabro Jack che, dopo aver promesso l’anima al diavolo, l’aveva più volte ingannato, cosicché, alla sua morte, neppure l’inferno l’aveva voluto accogliere ed era stato condannato a vagare in un’eterna oscurità, illuminata solo dalla debole luce di una candela custodita dentro una rapa svuotata.

Racconta la leggenda che durante la notte di Halloween Jack, insieme al ad altri spiriti, vaga alla ricerca di un rifugio. Alla radice di quella che ormai è diventata una festosa usanza sta questa visione problematica del rapporto tra i vivi e i morti. Le maschere spaventose, le decorazioni con pipistrelli, scheletri e altri simboli macabri rappresentano l’evoluzione moderna di rituali antichi il cui scopo era di confondere gli spiriti che, nella notte del 31 ottobre, si pensava vagassero sulla terra.

La stessa formula di rito “trick or treat”, “dolcetto o scherzetto”, che i bambini ripetono, girando di casa in casa, chiedendo dolci in dono, nasconde in realtà l’idea originaria di una minaccia, a cui corrisponde una negoziazione per evitare scherzi spiacevoli. L’alternativa posta è infatti tra trick, che significa “imbroglio”, “malizia”, “scherzo di cattivo genere”, e treat, che invece è il dono. E le zucche-lanterne fuori di casa, che col tempo hanno sostituito la rape, nel loro significato proprio servono ad esorcizzare la potenziale minaccia dei defunti.

Una lettura alternativa di Halloween

Non si può non confrontare questo messaggio con quello delle feste cristiane, dei santi e dei defunti, percepiti come protettori e amici, anzi, in alcuni contesti culturali – specie al sud – , come portatori di doni. È evidente che siamo davanti a due modi molto diversi di concepire la morte, dove il discrimine è la concezione cristiana che la vede come una purificazione volta a un compimento e non come la caduta in un mondo di ombre dove non c’è redenzione.

È comprensibile la resistenza della Chiesa cattolica al dilagare di una festività estranea alla nostra tradizione culturale e spirituale e importata dagli Stati Uniti sull’onda di una fortissimo incentivo consumistico. Papa Francesco parlava, a questo proposito, di una «cultura negativa sulla morte e sui morti».

Vi è però chi sottolinea che si tratta di una celebrazione il cui significato non è in fondo diverso da quello delle solennità cristiane: esorcizzare la morte e il terrore che essa ha sempre indotto nel cuore umano. Diversa, si dice, è solo la via per raggiungere questo obiettivo. Alla cupa visione che svaluta il mondo terreno esaltando la vita dell’oltretomba, Halloween contrappone, paganamente, una prospettiva ludica, in cui la morte è sconfitta da un rappresentazione in fondo parodistica, che alleggerisce l’esperienza della morte applicandole una buona dose di ironia.

«C’è chi, la notte del 31 ottobre, accende una candela dentro una zucca per ridere della paura e c’è chi, la stessa notte, accende una candela davanti a un altare per avere paura di ridere. Indovinate chi si diverte di più», scrive su «Il Dolomiti» Alessandro Giacomini. «Halloween è la notte in cui la gente ride della morte, esorcizza l’ignoto, prende in giro il male con ironia, tutto ciò che il potere religioso, per secoli, ha usato per tenere le persone soggiogate: la paura, l’oscurità, il peccato».

In questa lettura, Halloween diventa il simbolo di una società che ormai ha imparato a convivere con la finitezza della vita senza dovere fare i conti con la morte, anzi ridendoci su. Una interpretazione da prendere sul serio, perché permette di capire assai meglio della ricostruzione storico-filologica il successo di questa ricorrenza.

Corrisponde ad essa quella rimozione della morte che si registra nelle nostre società, rispetto a quelle del passato, in cui essa aveva un ruolo rilevante nell’esperienza dei vivi.

Prima il morente chiamava intorno a sé la famiglia e la sua fine implicava la trasmissione di una eredità, di un messaggio da conservare gelosamente nella memoria. Oggi si muore in ospedale o nell’ospizio, e se l’evento si verifica a casa, i bambini vengono mandati presso una famiglia amica perché non assistano. E la storia che ha vissuto chi è venuto prima non ha più alcun peso in un tempo che ha vissuto la “morte del padre” come radicale sganciamento dal suo esempio e dal suo insegnamento.

Il fatto è che nella nostra società è venuto meno «un orizzonte simbolico capace di far “vivere socialmente” il morire e che permetta di parlare della morte e insieme di parlare con il morente»; non ci sono più «parole capaci di far vivere socialmente il morire». Subentra la volontà di dominio che caratterizza la società tecnologica: «La morte in ospedale (…) finisce per essere una morte burocratizzata, dove il morire si dissolve in un contesto socio-organizzativo nel quale il funzionale si sostituisce all'umano. E insieme, una morte tecnicizzata, dove il morire tende ad essere sempre più programmato e pianificato» (Viafora).

A questo fenomeno sociale si accompagna quello culturale che tende a valorizzare la finitezza come tale, annullando il rimando a un “oltre” che essa, logicamente suppone. A differenza che nell’età moderna, dove il soggetto tendeva ad assolutizzarsi e a sostituire Dio (in certe filosofie si scriveva “Io” con I maiuscola), oggi ci si riconosce relativi, ma senza che questo implichi il riferimento a un Assoluto. Dio è diventato superfluo e con Lui anche l’idea di un destino eterno vissuto in comunione con Lui e separati da Lui. Chi parla più di paradiso e di inferno?

La censura sulla morte

Come stupirsi che anche il rapporto con i morti si sia progressivamente estenuato fino, in molti casi – soprattutto tra i giovani – , a scomparire? Certo, il 2 novembre molti andranno ancora al cimitero a portare un mazzo di fiori. I riti continueranno ancora per un certo tempo ad attestare un legame, ma la percezione collettiva va in una direzione opposta.

E anche nella vita personale il pensiero della morte è ormai censurato. Riaffiora soprattutto in occasione di tragici eventi – incidenti, morti premature per malattia – che improvvisamente ne rivelano la silenziosa prossimità. Ma tutto, nella nostra società, – con i suoi ritmi frenetici, il suo consumismo che sazia e stordisce, i suoi miraggi di successo – , è congegnato in modo da farcela dimenticare. Non abbiamo più eppure il tempo di pensarci!

Perciò Halloween. Ha ragione in fondo chi vede in questa festa una radicale alternativa alla visione cristiana. Lo sbaglio, se mai, è nel parlare di antidoto alla paura. Di fronte alla morte non si ha paura, perché essa non è un evento finale che conclude l’esistenza, ma l’orizzonte entro cui essa si svolge, traendone il senso della sua finitezza. I filosofi esistenzialisti hanno parlato di “angoscia”, che è piuttosto la presa di coscienza di questo orizzonte. E che questa presa di coscienza costituisca un elemento importante dell’esperienza umana lo testimoniano tutte le filosofie e tutte le forme di arte (penso qui, per portare solo un recente esempio, al bellissimo film «Il settimo sigillo», di Ingmar Bergman).

Forse perché è dal dialogo con la morte e dalla percezione del nulla che la vita stessa trae la sua ricchezza e la sua gioia, di cui sono fonte incessante lo stupore e la gratitudine di fronte all’esperienza dell’essere. E ci sarebbe da chiedersi se non sia proprio l’avere esorcizzato la domanda sulla morte – anche trasformando la festa dei santi e quella dei defunti nell’ennesimo evento consumistico – ad avere favorito quel nichilismo, denunziato da Galimberti, che svuota oggi la nostra esistenza.

Perché, come ha detto papa Francesco, proprio a proposito di Halloween, «dimenticare la morte è anche il suo inizio; chi dimentica la morte ha già iniziato a morire».
(fonte: Tuttavia 30/10/2025)

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Vedi anche il post (all'interno link ad altri precedenti):