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mercoledì 15 ottobre 2025

Gaza, il ritorno a casa di ostaggi e prigionieri - “Liberare il corpo non basta; ora occorre salvare l’anima” - La guerra non è affatto finita


Gaza, il ritorno a casa di ostaggi e prigionieri

Hamas ha rilasciato, come previsto dal piano proposto dall’amministrazione Trump, gli ostaggi ancora in vita. Reazioni in tutto il mondo, mentre si attende l’attuazione del resto degli accordi

Uno degli ostaggi israeliani rilascati da Hamas, Ziv Berman, in arrivo all’ospedale di Rmaat Gan, vicino a Tel Aviv. 
Foto Ansa/EPA/ATEF SAFADI

Si era parlato di un possibile scambio – ostaggi detenuti ha Hamas a Gaza, contro prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane – già nel weekend; si è infine arrivati a lunedì, 13 ottobre, quando è stato dato l’annuncio del ritorno a casa degli israeliani ancora in vita che da ormai due anni erano tenuti in ostaggio. Le spoglie dei 28 morti saranno invece consegnate tra il pomeriggio e la serata.

Sono venti quelli che hanno dunque fatto ritorno in Israele e alle loro famiglie, consegnati in due fasi alla Croce Rossa (prima sette, poi gli altri tredici): la notizia è stata accolta da un lungo applauso nella Piazza degli Ostaggi a Tel Aviv, e dai messaggi di felicitazione del presidente israeliano Herzog. Hanno fatto seguito numerosi altri esponenti politici mondiali: in primo luogo il presidente Usa Donald Trump, fautore dell’accordo, definito ad Axios come «forse la cosa più importante in cui abbia mai preso parte». Trump era in quel momento in viaggio verso Israele per un discorso al Parlamento di Tel Aviv, la Knesset, dove è stato accolto in piedi e con un applauso – mentre pare essere stato riservato il gelo a Netanyahu.

La presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni, ha parlato di una «giornata storica»; mentre il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha ribadito la linea a favore della soluzione “due popoli, due Stati” e confermato l’impegno italiano in questo senso. Parole simili dalla presidente della Commissione Ue, Ursula Von der Leyen, che ha assicurato il sostegno sia economico che politico dell’Unione alla popolazione di Gaza e all’Anp nella ricostruzione sia fisica che istituzionale. Anche il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, ha dichiarato che Mosca è disponibile a contribuire all’attuazione del piano Trump all’interno del vertice in corso in Egitto con gli Stati arabi (a cui Netanyahu ha appena annunciato che on parteciperà), per quanto la Russia mantenga «scetticismo sul raggiungimento di una soluzione sostenibile nella Striscia di Gaza».

Nel contempo, alcuni detenuti palestinesi sono stati rilasciati dalle carceri israeliane: l’agenzia di stampa palestinese Wafa parla (al momento in cui scriviamo) di alcune centinaia già giunti a destinazione su quasi duemila, accolti – riferisce Al Jazeera – dalla folla festante a Ramallah. Sempre secondo Al Jazeera, le forze armate israeliane avrebbero tuttavia esploso dei lacrimogeni verso la folla in attesa della liberazione dei detenuti fuori dal carcere di Ofer. Hamas, dal canto suo, ha dichiarato tramite il proprio portavoce Hazem Qassem di chiedere «a tutti i mediatori e alle parti internazionali di continuare a monitorare la condotta di Israele e di garantire che non riprenda la sua aggressione contro il nostro popolo a Gaza».

La vicenda è ancora in pieno sviluppo, dato che si attende il rilascio degli altri prigionieri e la restituzione delle salme degli ostaggi deceduti; e l’attenzione rimane naturalmente puntata sui nodi ancora irrisolti del piano Trump, su tutti il disarmo totale di Hamas e la futura governance della Striscia.

Intanto la notizia occupa comunque l’apertura dei siti di informazione in tutto il mondo: a partire naturalmente da Israele, dove Haaretz – notoriamente mai tenero nei confronti del premier – pubblica un editoriale di Yossi Verter dal titolo «Ora inizia la battaglia di Netanyahu sulla narrazione», intesa come il rendere conto alla Knesset della gestione di questa crisi ora che gli ostaggi sono finalmente a casa: una crisi in cui «racconterà di aver eroicamente resistito a pressioni in patria e all’estero, ma alla fine gli Stati Uniti non gli hanno lasciato altra scelta che cedere».

Anche il New York Times, dall’altra parte dell’Oceano, osserva come Trump sia passato dal mettere «pochi, se non nessuno, limiti all’offensiva israeliana, rigettando le richieste di un cessate il fuoco a livello internazionale» al cambiare linea, evidenziando un cambio di interessi sia politici che economici nell’area, anche il relazione agli altri Stati arabi.

In Russia, il Kommersant definisce quanto sta accadendo in Medio Oriente «uno show di Trump»; mentre il britannico Guardian, sempre attento alla causa palestinese, porta l’attenzione sui gazawi che ora «rovistano tra le macerie in cerca dei propri morti», mentre l’attenzione mondiale è in questo momento spostata dal loro dramma allo scambio – riuscito – di prigionieri. Lo stesso fa lo spagnolo El Paìs che posta tra l’altro una foto di Srebrenica, ricordando come «anche cattivi accordi di pace pongono fine alle guerre: gli accordi di Dayton, che chiusero la guerra in Bosnia, non hanno comportato che non ci sia stata né memoria né giustizia conto i genocidi serbi». Una luce di speranza, insomma, nell’ottica del “un cattivo accordo è meglio che nessun accordo”.
(fonte: Città Nuova, articolo di Chiara Andreola 13/10/2025)

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Accordo Israele-Hamas
Ostaggi israeliani rilasciati. Grappone (Emdr):
“Liberare il corpo non basta; ora occorre salvare l’anima”

Intervista a Noemi Grappone, supervisore Emdr, sul trauma degli ostaggi israeliani liberati ieri e dei sopravvissuti al 7 ottobre: “La liberazione fisica non coincide con quella psicologica. Il disturbo da stress post-traumatico può segnare la vita per anni. Servono cure tempestive e iperspecialistiche, e non bisogna avere fretta”

(Foto AFP/SIR)

Dopo oltre due anni di prigionia, esattamente 738 giorni, la mattina del 13 ottobre Hamas ha rilasciato venti ostaggi adulti israeliani, ancora vivi, detenuti nella Striscia di Gaza. I primi sette, pochi minuti dopo le 7; gli altri tredici poco prima delle 10 ora italiana. Dalle immagini televisive, sembrano essere tutti in discrete condizioni di salute, ma quali ferite invisibili porteranno con sé? Come si sopravvive ad un’esperienza che stravolge la percezione del tempo, del corpo, della fiducia? E intanto, lo scorso 7 ottobre si è tolto la vita Roei Shalev, sopravvissuto al massacro del Nova Festival, dopo aver visto morire accanto a sé la fidanzata due anni prima. Qualche mese prima si era suicidata anche Shirel Golan, 22 anni. Come si convive con il senso di colpa del sopravvissuto? 
Foto Giovanna Pasqualin/SIR


Per parlare di tutto questo abbiamo raggiunto Noemi Grappone (nella foto), psicoterapeuta esperta in traumi da guerra e violenza, supervisore Emdr.

Dottoressa Grappone, quali sono le conseguenze psicologiche di un sequestro e di una prigionia così prolungati?

Il sequestro è un’esperienza estrema che può generare disturbo post-traumatico da stress (Ptsd), dissociazione, alterazioni della memoria e della percezione del sé. Sopravvivere non significa tornare alla vita di prima. Significa convivere con pensieri intrusivi, flashback, disturbi del sonno, difficoltà relazionali, incapacità di provare piacere, depressione, dissociazione, senso di colpa al momento del rilascio verso chi è ancora detenuto o è morto durante il sequestro. Il disturbo da stress post-traumatico può congelare l’individuo (freezing) o renderlo iperallertato.

È un trauma profondo, che richiede tempo e interventi di cura iperspecializzati.

Durante la prigionia, come cambia la percezione di sé e del mondo?

C’è una perdita di fiducia negli altri, nel mondo, nei propri valori. Chi ha vissuto una prigionia non ha più riferimenti: né familiari, né relazionali, né politici. Si sviluppa una crisi identitaria:

“Io adesso chi sono? Come posso reinserirmi nel mondo? Come tornerò ad una vita normale?”.

In condizioni di isolamento e privazione, senza sapere se e quando si verrà liberati, quali meccanismi di sopravvivenza mentale si attivano per resistere?

La mente attiva forme di dissociazione per sopravvivere.

Ma quando il cervello si abitua a questo stato dissociativo, reintegrarlo è complesso. Serve un intervento iperspecialistico, non soltanto specialistico, un intervento con appositi strumenti per ricostruire le connessioni interne e “reintegrare” la parte del cervello che è stata dissociata.

L’Emdr è efficace in questi casi?

Sì. L’Emdr nasce per i veterani, i reduci di guerra. È uno strumento potente per affrontare traumi complessi, ma va adattato e personalizzato.


Quanto può durare un percorso di guarigione?

Anni. Il trauma non finisce con la liberazione. Finisce quando il passato viene lasciato nel passato e la persona si apre al presente e ad una prospettiva nuova. Non bisogna avere fretta di tornare alla normalità:

per chi ha vissuto l’orrore, la normalità diventa una rinascita.

Che cosa è importante fare nei primi giorni dopo il rilascio?

L’intervento psicologico deve essere parte integrante della risposta umanitaria.

Non possiamo salvare un corpo e dimenticarci dell’anima.

Servono ascolto, tempo, spazi per raccontarsi, ma questo può avvenire soltanto quando si è riusciti a fare i conti con la propria storia. Ripeto: non bisogna avere fretta perché la liberazione fisica non coincide con quella psicologica, così come la guarigione fisica non coincide con quella dell’anima.

Pensando ai due suicidi dei sopravvissuti al 7 ottobre, che cosa accade nella mente di chi scampa ad una strage?

Essere scampati a questo genere di strage è un trauma con la T maiuscola, amplificato dalla presenza di un colpevole. Non si tratta infatti di un evento naturale, ma del frutto di una barbarie umana. I sopravvissuti vivono in una condizione di trauma “ancora in atto” molto difficile da superare, e purtroppo notizie ascoltate, date particolari, anniversari possono riattivare tutta la crudeltà di quell’evento e riacutizzarne il dolore. Esiste una vera e propria sindrome dell’anniversario. In condizioni di solitudine e mancanza di percorsi di cura questi traumi possono diventare letali.

Qual è, allora, il messaggio per chi oggi esce da un incubo durato anni?

Occorre riconoscere il trauma, affrontarlo, curarlo. Servono cure tempestive, iperspecialistiche, personalizzate. Non esistono risposte universali. Esiste il diritto alla cura, alla dignità, alla rinascita.
(fonte: SIR, articolo di Giovanna Pasqualin Traversa 14/10/2025)

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Hamas non restituisce i corpi, Israele taglia gli aiuti:
la guerra non è affatto finita

Il gruppo armato ribadisce la difficoltà di localizzarli. E dopo un estenuante tira e molla invia a Tel Aviv i resti di altri 4 rapiti. Raid e vittime a Gaza

Un convoglio della Croce Rossa internazionale trasporta le salme degli ostaggi israeliani consegnati dai miliziani di Hamas nella zona di Khan Yunis

Pace in Medio Oriente, fase 2. Il giorno dopo la standing ovation del Parlamento israeliano per Donald Trump e la firma in pompa magna a Sharm el-Sheikh del piano del presidente Usa, comincia – come ha confermato lo stesso Qatar, grande tessitore – il “secondo tempo” dell’accordo. Quello – delicatissimo – della trasposizione dalle formulazioni ambigue della carta alla realtà di Gaza, i venti punti per una fine «duratura» del conflitto. Il rischio empasse è altissimo man mano che, uno dopo l’altro, i nodi arrivano al pettine e le parti provano a scioglierli. Prima fra tutte, la questione della restituzione dei corpi degli ostaggi. ...

Leggi su Avvenire tutto l'articolo di Lucia Capuzzi e Luca Foschi