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venerdì 10 febbraio 2023

Pregare: questione di «un momento»

Pregare: questione di «un momento»

Nei giorni di un Sanremo in cui - si è scritto su Famiglia Cristiana - "Dio non c'è (o quasi)", è bene riascoltare l'attimo che Ligabue chiedeva qualche anno fa a Dio


Se rileggiamo con attenzione la prima lettura di domenica scorsa, notiamo qualcosa che dà da pensare. Il profeta, infatti, inizialmente ribadisce il vero senso del «digiuno» per il Signore («dividere il pane… introdurre in casa i miseri…») per poi constatare: «Allora invocherai e il Signore ti risponderà, implorerai aiuto ed egli dirà: “Eccomi!”». Ma ne siamo proprio sicuri? Non sembra tutto un po’ troppo facile? Quanto volte sembra che il Signore ignori completamente le nostre preghiere, che il suo sguardo sia rivolto altrove e che la sua grazia “discenda” su qualcun altro che, a ben vedere, è pure “meno meritevole” di noi? Diverse sono le situazioni che possono suscitare questi dubbi e questi sentimenti. Allo stesso tempo, però, potremmo anche dire che sono proprio queste domande ad alimentare un’autentica e non scontata ricerca di dialogo, di relazione con chi comunemente chiamiamo “Dio”; delle domande che, addirittura, trovano posto nella vita stessa di Gesù, che con il suo ultimo respiro prega: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato» (Salmo 22). Sentimenti, quindi, più che umani, per certi versi addirittura divini, che possono aver intercettato la nostra anima orante e che comunque ci mettono in un certo imbarazzo di fronte al testo di Isaia da cui siamo partiti. Cosa significa allora pregare? Che senso ha la preghiera?

Confrontarsi con questa dinamica di “sconforto” nella preghiera e cercarvi una risposta non è certo agevole. Qualcuno, però, non solo si è imbattuto nella questione ma l’ha anche messa in musica. Nel 1995, Luciano Ligabue ha inciso l’album Buon compleanno Elvis. Tra i vari brani che lo compongono, uno in particolare attira la nostra attenzione: Hai un momento Dio? Non c’è titolo più adeguato al nostro discorrere. Non è proprio questa la domanda che traduce in sintesi lo stato d’animo di chiunque si accinge a pregare, in qualunque parte del mondo, in nome di qualsiasi religione? Non è questa la comune convinzione: ci dev’essere qualche “Dio” che ha un momento per noi?


«C’è un po’ di traffico nell’anima». Caos, ingorghi, irritazione che facilmente diventa rabbia, la simultanea presenza di più “cose” senza un ordine preciso: tutto è fermo e assolutamente confuso. È questo il traffico, e se si trova nell’anima, fuor di metafora, significa che la nostra vita è in stallo, non sappiamo più quale direzione prendere. Per questo è necessario «parlare», confrontarsi con qualcuno, perché dobbiamo uscire dal nostro sé, troppo “trafficato”.

È su questa situazione iniziale che si radica il bisogno del credente di pregare, di rivolgersi al proprio Dio. Ed è proprio qui, tuttavia, che cominciano anche i problemi. Se, infatti, il credente sembra avere “una marcia in più” rispetto ai non credenti, perché ha sempre Qualcuno cui rivolgersi, ecco che se Dio non risponde, la fede diventa, al contrario, un peso insopportabile e questo silenzio sconfortante: perché forse è meglio doversela cavare da soli che pensare di essere in relazione con qualcuno per poi scoprire di essere ignorati o, peggio, di essere effettivamente soli. Se questa è l’alternativa (essere illusi o essere ignorati), non ci sorprende il tono della canzone, l’insistenza con cui risuona quella che forse, in fondo, è l’unica vera domanda di chi prega: «Perché? Perché ci dovrà essere un motivo, no?». È questo ciò che spinge a pregare: doversi occupare di sé, dover trovare un «perché» a se stessi. Ci rendiamo conto, allora, che la posta in gioco è davvero alta, perché non ne va di qualcosa, ma del tutto, ed è per questo che sentiamo il bisogno (quasi il diritto) di rivolgerci a Dio: perché in fondo non è questione di chi «è più pratico» della vita, ma di chi ne è all’origine. È a lui che si rivolge la pretesa, quasi arrogante: «No perché sono qua, insomma ci sarei anch’io». Quanto è di moda e insieme quanto è vera questa frase. Di fronte all’altro, qualunque altro (o Altro), non ci basta sapere di esserci, vogliamo essere considerati per chi siamo, come soggetti unici e irripetibili. Siamo disposti a tutto per questo, anche solo per un accenno di risposta: «Di’ su, quant’è?».

Eppure, questo Dio sembra proprio essere lì «per non rispondere», non è facile sentirlo: forse perché tace o forse perché noi non ci riusciamo. Perché continuare allora? Perché perdere tempo? Perché qualcosa dentro di noi c’è; perché sentiamo in noi la presenza di una traccia, di «qualcosa in cui credere» che però, come dice Ligabue, «non riesco mica a ricordare bene che cos’è».

È qui che la preghiera ritorna al suo unico, vero motivo. Il senso dell’esistere, il «perché» della vita, è qualcosa in cui solo si può credere e a cui sempre si deve ritornare. E proprio perché in gioco c’è il tutto, si fa insistente e continua la richiesta di attenzione: «Se stai ridendo, io non mi offendo, però… perché?». All’orante, quasi, non interessa nemmeno più cosa ne pensi l’altro della propria preoccupazione. L’unica cosa che conta è la risposta, perché ne va di me: «Ma tu hai un attimo per me?».

Alla fine, però, nemmeno Ligabue riceve una risposta. La canzone termina con un insoddisfacente punto di domanda o, in altre versioni, con tre puntini di sospensione… Se però le conclusioni possono essere insufficienti, la nostra preghiera, il nostro vivere orante forse ne ha comunque tratto giovamento. Non tanto perché ha riconosciuto un “mal comune” (sembra che Dio non risponda a nessuno), bensì perché in effetti ci viene detto che il pregare, in tutte le sue forme (anche il lamento) ha a che fare con noi. Perché la preghiera autentica non cerca facili scappatoie in Dio o improbabili interventi miracolistici, ma chiede uno sguardo diverso sulla vita, uno Spirito diverso, che ci aiuti a riconoscere il senso che ci abita, la “nostalgia” – direbbe qualcuno – di quell’Altro cui sempre ci rivolgiamo. Quell’Altro che ha sempre «un momento» per noi, e che in Gesù ci ha detto, una volta per sempre, l’unica risposta, l’unico «perché» di cui sempre possiamo vivere.
(fonte: Vino Nuovo, articolo di STEFANO FENAROLI 9 febbraio 2023)

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Vedi anche l'articolo di Famiglia Cristiana citato: "Dio non c'è (o quasi)"