IL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE UNIVERSALE,
PRESIDIO DI EQUITÀ E UNITÀ NAZIONALE
di Mauro Magatti
Nel suo discorso di fine anno, il presidente Mattarella ha richiamato l’attenzione sul servizio sanitario nazionale quale «presidio insostituibile di unità del Paese». Incidendo direttamente sulla vita delle persone, la qualità della sanità e la sua accessibilità costituiscono elementi qualificanti della nostra cittadinanza. Un richiamo che, a una settimana dalle elezioni regionali in Lombardia e nel Lazio, merita di essere ripreso e approfondito.
A 45 anni dalla sua introduzione, il servizio sanitario nazionale può essere raccontato come una storia di successo. La sanità pubblica ha dato infatti un contributo importante all’allungamento della vita media attesa, che ha raggiunto per il nostro Paese gli 84 anni. E, grazie soprattutto al contributo generoso di medici e infermieri, anche la prova del Covid è stata superata.
Proprio nei mesi della pandemia, l’importanza di un efficace sistema sanitario nazionale a base pubblica è stato evidente a tutti. E le promesse di tornare a investire nella sanità si sono sprecate. Eppure, a tre anni di distanza, le cose sembrano andare diversamente.
Tanto gli scompensi territoriali (la sanità non è uguale nelle diverse regioni italiane) quanto quelli sociali (solo chi sta meglio può curarsi adeguatamente, riducendo i tempi di attesa sempre più lunghi a cui costringe la sanità pubblica) sono ancora tutti lì.
Da più parti si segnalano ritardi e incertezze organizzative che si traducono in sprechi, ritardi, colli di bottiglia (a cominciare dai pronto soccorso intasati) scelte sbagliate (troppa focalizzazione sugli ospedali di eccellenza e scapito della medicina di territorio), gravi errori di programmazione (drammatica carenza di personale).
Negli ultimi anni, carichi di lavoro eccessivi e salari insufficienti hanno spinto molti medici e infermieri a lasciare la sanità pubblica per entrare nel campo privato, più profittevole e gestibile. La sensazione è che, nonostante il volume della spesa, la coperta diventi sempre più corta. Con una lenta ma progressiva erosione della centralità della sanità pubblica. Già oggi si stima che le famiglie italiane spendano più di 40 miliardi di euro per cure mediche. Con un trend in aumento, che comporta anche una disuguaglianza sempre più marcata. Salvare quel bene inestimabile che è la sanità pubblica resta un obiettivo primario dei prossimi anni. Contrapporre privato e pubblico non è la strada giusta.
Il confronto con il modello americano ci dice infatti che la sanità pubblica costa meno ed è più efficace, riduce le disuguaglianze e costituisce un elemento di stabilità democratica. D’altro canto, è molto difficile per la sanità pubblica reggere la velocità dei cambiamenti. Sul lato dell’offerta, la sanità — come tutti gli altri settori — è investita da un’innovazione tecnologica incalzante rispetto alla quale è difficile tenere il passo. Nuovi farmaci, nuove terapie, nuove attrezzature richiedono investimenti ingenti e continui, che non è facile sostenere.
Sul lato della domanda, è l’idea stessa di salute a cambiare. Dopo aver garantito l’accesso universale e gratuito alle cure mediche, nel corso degli anni, il sistema sanitario nazionale si è esteso includendo una varietà pressoché infinita di servizi. A ciò si aggiungano la cronicizzazione di molte situazioni patologiche e l’invecchiamento della popolazione. Ciò che appare sempre più evidente è che la salute non è un bene saturabile ma cresce quanto più migliorano le condizioni di vita. In una società avanzata non si tratta più solo semplicemente di curare le malattie, ma di garantire l’intero benessere psicofisico. Ecco perché diventa sempre più difficile riuscire a soddisfare la domanda.
Il risultato è che l’idea stessa di sanità pubblica non può più essere data per scontata. Almeno come è stata pensata cinquant’anni fa.
Nel quadro dei mutamenti in corso, la sanità va piuttosto vista come un importante banco di prova del modello di sviluppo sostenibile che dobbiamo creare. In una società avanzata la sanità è un sistema complesso che richiede un approccio non ideologico e non burocratico, capace di far dialogare una pluralità di competenze e professionalità. Abbiamo bisogno di pensare a come fare interagire positivamente i diversi fattori che concorrono a migliorare la qualità della nostra vita individuale e collettiva.
La complessità deriva dal fatto che la sanità oggi ha strettamente a che fare con la spesa in ricerca e in tecnologia, perché non c’è sanità efficiente se non di elevata qualità; ma abbiamo bisogno anche di una sanità di territorio capace di stare vicino e sostenere tutte le cronicità che non devono essere necessariamente ospedalizzate. Abbiamo bisogno di più cure ma anche di più care. Abbiamo bisogno di calibrare bene i processi formativi valutando l’evoluzione dei fabbisogni professionali futuri anche in vista dei grandi cambiamenti tecnologici che velocemente verranno introdotti. E insieme di più educazione, perché la salute dipende dal livello culturale delle persone, dallo stile di vita e dalle abitudini alimentari.
Dopo mezzo secolo dall’istituzione del servizio sanitario nazionale, e superata la stagione mitica della privatizzazione, si deve dunque aprire una fase nuova: la risposta ai tanti segnali di allarme che si vanno registrando non sta solo in un aumento quantitativo delle prestazioni e delle risorse pubbliche impiegate. D’altro canto, l’idea di appoggiare al Ssn una concezione consumerista della salute — un bene da consumare a volontà — non regge. Con coraggio, vanno ridefiniti i contorni di una sanità pensata come bene pubblico universalistico, in un mondo in cui la domanda infinita di sanità è destinata a crescere illimitatamente. Di fronte a tutto questo l’inerzia è colpevole.
(Fonte: “Corriere della Sera” del 6 febbraio 2023)