Una tragedia familiare
di Giuseppe Savagnone
La tragica morte di Riccardo Faggin, il ragazzo di Padova che si è schiantato con la sua auto contro un albero, alla vigilia della festa per una laurea che non c’era, non può non riempire di pena, ma suscita anche delle riflessioni sul problema più generale dei rapporti tra genitori e figli.
C’è la pena, innanzi tutto. Perché tutti i protagonisti di questa triste vicenda sono in qualche modo vittime. Lo è innanzi tutto Riccardo, che a soli 26 anni ha perso la vita per un incidente che probabilmente maschera qualcos’altro. Non abbiamo certezze assolute, su questo, ma l’ipotesi del suicidio è la più plausibile. E del resto, ci sono casi in cui una persona guida in preda a un tale stato d’animo di disperazione da ignorare le più elementari regole di prudenza e, senza forse neppure dirlo a se stessa, cerca la morte.
Perché Riccardo non aveva avuto il coraggio di dire ai genitori che aveva inventato tutto, che non si stava laureando, come aveva loro raccontato, e che anzi gli mancavano ancora parecchie materie (la tesi forse neppure l’aveva cominciata). E vittime sono anche il papà e la mamma di Riccardo, che avevano preparato per lui una festa con il pranzo al ristorante e avevano addobbato con fiocchi rossi la loro casa. E che ora sono distrutti da un senso di colpa che non li lascerà per tutto il resto della loro vita, per avere troppo pressato il figlio – certo, “a fin di bene” – perché studiasse e prendesse finalmente quella benedetta laurea in Scienze infermieristiche.
Solitudine
Certo, ha avuto un ruolo fondamentale anche il contesto di questa triste vicenda, lo stesso in cui viviamo immersi ogni giorno: una società dove siamo tutti in comunicazione con tutti, ma spesso in un rapporto vero con nessuno. Riccardo, racconta la madre, «si è trovato solo e non aveva nessuno con cui parlare. Se avesse avuto amicizie più salde, forse avrebbe trovato qualcuno con cui confidarsi».
Sì, rapporti di “amicizia” ne aveva tanti. Ma nessuno profondo. «Quando finiscono le superiori capita che gli amici si perdano. All’università non era riuscito a stringere legami forti. Poi è arrivata la pandemia, ed è rimasto sempre in casa con noi. Ultimamente mi sembrava che si stesse riprendendo, andava anche a giocare a tennis».
Innegabile anche una parte dovuta alla famiglia. Il padre di Riccardo fa una dolorosa autocritica: «Mi rimprovero di non aver saputo leggere i segnali, di non avergli insegnato a essere più forte, almeno ad avere quella forza che serve per chiedere aiuto. (…). Perché Riccardo si è sentito in trappola e io, in questi 26 anni, non sono riuscito a trasmettergli la consapevolezza che, in realtà, non era solo, che mamma e papà potevano comprenderlo e sostenerlo nell’affrontare le difficoltà che la vita gli avrebbe messo davanti, fallimenti compresi».
Ciò che colpisce in questa storia è che non ci sono “mostri” da additare come colpevoli. Riccardo era soltanto un ragazzo fragile, troppo preoccupato di deludere i suoi genitori. E loro non volevano soffocarlo, anzi lo avevano lasciato libero di scegliere lui stesso il corso di studi che preferiva. Lo avevano solo sollecitato, come tanti genitori fanno, vedendo che tardava a laurearsi.
E qui, al di là della pena, si sente la necessità di interrogarsi. Perché questo dramma senza colpevoli? La risposta probabilmente si può andare a cercare nelle parole dei genitori di Riccardo. Questo ragazzo, come moltissimi altri, era solo. Nella civiltà di massa la solitudine dei giovani ha cambiato volto. Non è quella che nasce dalla mancanza di rapporti, ma dalla loro insignificanza. Il lockdown, poi, ha fatto la sua parte nel rendere ancora più precarie le relazioni umane, contribuendo ulteriormente ad appiattirle sul piano del virtuale. E, anche adesso che è finito, molti preferiscono collegarsi via internet a un incontro che andare di presenza.
Dalla famiglia-istituzione a quella fondata sulla relazione personale
Il dramma è che questa solitudine si annida anche in quei rapporti che per definizione non dovrebbero essere “di massa”, come è il caso di quelli all’interno di una famiglia. Anche qui, troppo spesso, il problema è quello che il padre di Riccardo ha giustamente individuato come la radice della tragedia:
la mancanza di dialogo.
Non si tratta di abbandonarsi alla facile retorica del rimpianto per la famiglia del passato. Anche in quella il rapporto tra i genitori – soprattutto il padre – e i figli spesso era molto carente, se non del tutto assente. Ma era una famiglia che si reggeva su una impalcatura di regole e di abitudini che oscurava la percezione del problema, sia da parte degli interessati, sia negli effetti all’esterno.
Da questo punto di vista la famiglia del nostro tempo è molto più autentica, perché, venuta meno quella impalcatura, si regge soltanto sulle scelte e sul coinvolgimento delle persone. Niente più (almeno in Occidente) matrimoni combinati, niente più dipendenza assoluta dai genitori, niente più rapporti formali (alla madre e al padre i figli un tempo davano del “lei” o del “voi”!).
Ma, proprio per questo, è diventata essenziale la relazione personale. Ed essa non può fare a meno del dialogo. Senza dialogo non è possibile realizzare la comunione che dovrebbe sostituire la vecchia struttura familiare prevalentemente istituzionale. E quella che dovrebbe essere una comunità si riduce a un’aggregazione di solitudini, in cui dei soggetti autoreferenziali cercano disperatamente la propria autorealizzazione a livello individuale senza assumersi la responsabilità degli altri membri della famiglia. Una “società per azioni”.
Così, un cambiamento culturale che potrebbe costituire un indubbio progresso nel modo di concepire e di vivere matrimonio e famiglia si trasforma in una decostruzione selvaggia, in cui i più fragili rimangono abbandonati a se stessi.
La sfida del dialogo e la famiglia
Dove “dialogo” non significa semplicemente parlare. Ci sono tanti modi di farlo. Ogni giorno assistiamo ad esempi che mostrano come si possano usare le parole per non dire nulla. I saluti convenzionali, che in realtà non esprimono un vero interessamento; le chiacchiere a proposito del più e del meno, per colmare il vuoto inquietante di certi silenzi – come quando in ascensore, per superare l’imbarazzo, uno dice: «Bella giornata, vero?». E poi ci sono le parole dette per difendersi da una vera comunicazione, che volutamente eludono i problemi. E quelle dette per ferirsi a vicenda….
Ma questi sono solo monologhi. Il dialogo esige che si parli per dire davvero ciò che si pensa e si sente, per aprirsi all’altro e lasciare che egli entri dentro di noi. Ma questo suppone che oltre a qualcuno che parla ci sia chi ascolta. E saper ascoltare è ancora più difficile che saper parlare davvero, perché per farlo non basta sentire – quello è un fenomeno acustico – , ma neppure è sufficiente capire ciò che l’altro dice – qui è in gioco il cervello – , bisogna lasciarsi toccare, colpire, in qualche modo trasformare, dalle parole che si ascoltano. Dopo un vero dialogo nessuno dei due interlocutori è più lo stesso di prima.
Il dialogo non è facile: è una sfida. E molte famiglie la perdono. Già in molte coppie esso è carente, se non addirittura latitante. Può darsi – e accade sempre più spesso – che questa incapacità di parlare e di ascoltarsi a vicenda porti alla fine del rapporto e, quando c’è, del matrimonio. Altre volte i due restano insieme, ma vivono vite parallele, favoriti dal fatto che ormai i tempi da trascorrere insieme, a causa dei rispettivi impegni di lavoro, si sono molto ridotti.
Genitori e figli
Questo vuoto di reale comunicazione ricade evidentemente sui figli. Non che i genitori non si prendano cura di loro. Anzi, in molti casi, esagerano in atteggiamenti protettivi, magari andando a litigare a scuola con un professore che li ha rimproverati; fanno di tutto perché abbiano il necessario e anche il superfluo, accontentandoli in tutti capricci; investono nella loro qualificazione, mandandoli a corsi di lingue e facendoli viaggiare all’estero. Ma stabilire un dialogo è un’altra cosa.
Alcuni genitori credono di riuscirci camuffandosi da “amici” , facendosi chiamare per nome e dicendo sempre di sì. Senza rendersi conto che di amici i loro figli ne possono avere quanti ne vogliono, mentre di padre e di madre hanno solo loro. E il dialogo che i genitori devono aver coi figli è ben diverso da quello tra coetanei. La distanza generazionale e la diversità dei ruoli non solo non sono un ostacolo ad esso, ma possono addirittura essere un fattore positivo, perché le differenze di età, di punti vista, di esperienze, lo arricchiscono e lo rendono più fecondo.
Il punto è che molti genitori non hanno tempo da dedicare a parlare né tra di loro né, tanto meno, con i figli. Vorrebbero che il figlio o la figlia rispondessero alle loro domande raccontando direttamente i propri problemi, in modo da venire incontro alla loro fretta. Se chiedono notizie sulla scuola o sull’università, nei ritagli di tempo che il lavoro lascia liberi per la famiglia, lo fanno senza avere una chiara idea del contesto esistenziale in cui il figlio o la figlia vivono queste esperienze. E il figlio, la figlia, se ne accorgono, ma rinunziano a spiegare situazioni e stati d’animo che sospettano siano incomprensibili da parte dei genitori .
Il dialogo esige un clima adatto. E, per creare questo clima, è necessario mettersi in gioco e fare spazio all’altro, – lo spazio dell’ascolto – , consapevoli che le cose più significative potrebbero venire alla luce, nel discorso, solo dopo molte notizie marginali oppure magari nel bel mezzo di una chiacchierata sul campionato di calcio.
I ritmi frenetici della nostra società non rendono facile agli adulti trovare questi spazi. Così molti preferiscono illudersi che tutto vada bene, perché l’unica cosa di cui figli non si lamentano mai è di essere poco ascoltati. Ma alla fine, in una famiglia in cui non si dialoga, restano tutti soli. Anche i genitori, che rischiano di non conoscere veramente i loro figli. E che qualche volta, purtroppo, come nel caso di quelli di Riccardo, pagano un prezzo ancora più alto