Giuseppe Savagnone
Il Natale può ancora parlare a una società secolarizzata?
Foto di Andreas Böhm da Pixabay |
È dei giorni scorsi la notizia che nel Regno Unito l’università di Brighton, in una «Guida al linguaggio inclusivo», ha caldamente sconsigliato al personale di usare il termine «Christmas», «Natale», per non rischiare di offendere la sensibilità dei seguaci di altre religioni. Ritornano alla mente le linee-guida proposte un anno fa dalla Commissione europea e poi ritirate, in cui pure era contenuta l’indicazione di sostituire il termine “Natale” con quello, più neutro, di “festività”.
In realtà già da tempo è in atto in molti paesi d’Europa la tendenza a trasformare il Natale cristiano in una “festa del solstizio d’inverno”. La motivazione ufficiale è sempre la stessa: il rispetto delle altre religioni. Lo stesso argomento con cui ogni tanto, anche in Italia, qualche preside si oppone all’allestimento del presepe, facendo presente che nelle nostre scuole ormai ci sono molti studenti musulmani.
A dire il vero i primi a sorprendersi di questo “atto di delicatezza” sono proprio i seguaci dell’Islam, perché il Corano, nell’unica sura (capitolo) dedicata a una donna, precisamente a Maria, parla esplicitamente dell’annuncio dell’angelo Gabriele alla Madonna e della nascita verginale di Gesù (anche se come grande profeta e non come Figlio di Dio).
Senza dire che, in ogni caso, la tolleranza religiosa non può essere intesa come una rinunzia alle rispettive identità, ma va riletta alla luce di un pluralismo che promuova il loro dialogo, nel rigoroso rispetto delle rispettive differenze, al di là di ogni mortificante omologazione.
Ma forse a non capire più il senso della nostra identità siamo proprio noi, i cristiani, ormai succubi di un clima consumistico che ha trasformato il Natale in un’occasione di acquisti e di divertimenti, mettendone in secondo piano (se non addirittura annullandone) il valore religioso. Babbo Natale ha ampiamente sostituito il Bambino Gesù e anche i pagani alberi di Natale prevalgono ormai sui vecchi presepi.
Eppure vi è qualcosa che il Natale può dire anche a chi non ci crede più o ci continua a credere solo per una stanca abitudine. Qualcosa che ha che fare non solo e non tanto con la sfera del divino, ma anche e innanzi tutto con quella dell’umano, anch’essa minacciata dal dilagare di una festosità senza altro contenuto che il trionfo del mercato.
Proverò a racchiudere questo messaggio del Natale in tre parole.
Il silenzio
La prima è “silenzio”. Da sempre la rappresentazione della nascita di Gesù è collegata a un calmo paesaggio notturno innevato (non è un’invenzione: a Bethlem d’inverno fa veramente freddo) e al grande, muto stupore di pochi, umili testimoni. Nessun frastuono di folle in attesa, nessun comitato di accoglienza, nessun rumoroso festeggiamento ufficiale. L’evento a partire dal quale nel mondo occidentale si è poi misurato lo scorrere degli anni – suddividendolo nella fase “avanti Cristo” e in quella “dopo Cristo” – allora passò del tutto inosservato.
Per noi, abituati a considerare un flop ogni fatto di cui non si parli sui giornali e in televisione, rimbalzando, in modo virale, sui social, questo esordio della storia di Dio tra gli uomini può apparire molto deludente.
Eppure il silenzio ha una sua forza, oggi misconosciuta. La liturgia natalizia contiene, a questo proposito, un passo del libro della Sapienza: «Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo rapido corso, la tua parola onnipotente si slanciò dal cielo, dal tuo trono regale» (18, 14-15). Romano Guardini commenta: «Queste parole parlano del mistero dell’incarnazione e il silenzio infinito, che vi opera dentro, trova in esse la più felice espressione. Le cose grandi maturano nel silenzio».
Certo, ce n’è uno che nasce dall’indifferenza e dall’emarginazione. Il silenzio di una porta chiusa e di una mancata risposta. Anche questo ha segnato la nascita di Gesù, per cui non c’era posto nell’alloggio comune. In questo silenzio disumano si è trovato immerso, pochi giorni fa, il ragazzo ventenne extra-comunitario che, a Bolzano, dopo aver vanamente cercato un posto dove dormire, ha dovuto trascorrere la notte in un rifugio di fortuna, sotto un cavalcavia, ed è morto di freddo.
Ma c’è anche un silenzio che è molto di più dell’assenza di parole e che scaturisce dalla loro incapacità di esprimere una sovrabbondanza di significato. Un silenzio che oggi siamo ormai disabituati a percepire, intenti come siamo a esorcizzare con le nostre chiacchiere e i nostri luoghi comuni ogni vuoto imbarazzante di rumori. Anche per fuggire da noi stessi e non ritrovarci faccia a faccia con un vuoto profondo che non vogliamo scoprire.
In questo silenzio, dice il racconto del Natale, Dio ha scelto di incontrare l’umanità, attirando in esso non solo gli umili pastori, ma anche tutti coloro che dopo quella notte di duemila anni fa avrebbero scelto di entrarvi in punta di piedi, lasciandosi alle spalle il chiasso e l’agitazione, per ascoltare se stessi e, dentro se stessi, il Verbo inesprimibile che solo in un grande silenzio si può percepire.
Fragilità
La seconda parola è “fragilità”. Il Natale ne è la festa. Esso racconta di un Dio che si fa uomo – «carne», dice il quarto vangelo (Gv 1,14), per sottolineare non solo e non tanto la fisicità dell’incarnazione, quanto la sua compromissione con le ambiguità e la problematicità dell’umano.
A sottolineare questa vulnerabilità è il fatto – ovvio, trattandosi di una nascita – che nella stalla di Bethlem ora c’è un neonato, bisognoso di tutto, come ogni neonato. Ma questo bambino è reso ancora più fragile dal suo essere il figlio di poveri, che hanno dovuto farlo nascere in una stalla (chi guarda un presepe raramente pensa a ciò che questo ha significato dal punto di vista igienico). Un’antica tradizione dice che il solo riscaldamento, in quella notte gelida, venne dal fiato di un bue e di un asino.
Non passerà molto tempo e la famigliola sarà pure costretta a fuggire in Egitto, per la persecuzione dei potenti, con mezzi di fortuna (secondo tradizione, ancora una volta un asino). Il primo migrante dell’era cristiana è stato Gesù.
L’immagine di precarietà offerta dalle vicende, spesso tragiche, del flusso migratorio, trova un preciso riscontro nella storia del Natale. Altro che festa del consumismo! Quella fu una storia di poveracci senza permesso di soggiorno, molto simili a quelli che oggi tanti buoni cattolici non vogliono vedere arrivare nel nostro paese, anche a costo che li si lasci affogare.
Ma il richiamo alla fragilità che proviene dal Natale ci riguarda anche, e forse più profondamente, sotto altri aspetti. Perché gli uomini e le donne del nostro tempo si sperimentano tutti fragili, indipendentemente dalle condizioni esteriori. La figura leonardesca dell’uomo che sta al centro dell’universo, i ritratti rinascimentali, raffiguranti volti intensi e risoluti, sono stati emblematicamente sostituiti dalle immagini, presenti in certi quadri di Picasso, di volti destrutturati, i cui diversi elementi appartengono a prospettive diverse incompatibili fra loro: un occhio di fronte e uno di profilo, un orecchio qua e il naso là…
Questa frammentazione rispecchia la nostra. Un filosofo contemporaneo ha paragonato l’io a una società per azioni – molteplice per definizione – , in cui le maggioranze variano continuamente. La provvisorietà è diventata la cifra dei rapporti affettivi, del lavoro, della residenza. Siamo tutti, da questo punto di vista, dei migranti…
Certo, anche qui c’è un modo di vivere questa fragilità che la rende disastrosa per l’equilibrio personale e ce n’è uno che comporta la sua umile accettazione e la sua valorizzazione positiva. La vulnerabilità, ha scritto una volta qualcuno, è la nostra finestra sulla realtà. È la rinunzia alla corazza dietro cui in passato si trincerava l’uomo “tutto d’un pezzo”. E può diventare la partecipazione consapevole a tutte le fragilità degli uomini e delle donne nostri fratelli e sorelle.
Il racconto di Natale ci parla di un Dio che ha voluto essere anche lui partecipe di questa ferita, che è anche una ricchezza.
Mistero
La terza parola che può esprimere ciò che il Natale ha da dire alla nostra società secolarizzata è “mistero”. Un termine che esprime ciò che di inafferrabile, e tuttavia di affascinante, si nasconde nel mondo e nella nostra stessa vita.
Oggi il potere della tecnica si manifesta in ogni aspetto dell’esistenza. L’impressione che ne risulta è quella di una realtà fisica che può essere dominata e manipolata senza limiti. Lo stesso essere umano diventa oggetto di questa manipolazione, per fini pienamente condivisibili e per altri che lo sono assai meno.
L’attitudine allo stupore di fronte alla ricchezza e alla imprevedibilità del reale è sempre più ridotta. Pur con la fragilità di cui si diceva prima, siamo noi gli artefici del nostro mondo e del nostro destino. Non ci sono più misteri, ma solo zone ancora in ombra che attendono di essere illuminate dal progresso della nostra conoscenza e asservite al nostro dominio.
Vi è certamente in tutto questo un versante ampiamente positivo. Nessuno sano di mente vorrebbe rinunciare ai frutti della ricerca nel campo medico e agli enormi vantaggi che essa ha apportato nel preservare la nostra salute. E lo stesso vale in tanti altri campi, in cui quelli che un tempo erano considerati “misteri” sono stati svelati, con benefici effetti per l’umanità.
Eppure vi è qualcosa in questo contesto, a prima vista entusiasmante, che appare problematico. Perché eliminare del tutto il mistero comporta un appiattimento del mondo sulla nostra misura. Richiamo di non vedere altro che noi stessi. Peggio: di eliminare anche il mistero che è in noi e che nessuna misurazione scientifica, nessuno strumento tecnico, potrebbe mai catturare.
L’arte, la religione, la filosofia, hanno sempre espresso, nelle loro varie manifestazioni, l’oscura presenza di questo “oltre”, che non è una minaccia per l’umano, ma una condizione della sua identità, perché ne dice il limite costitutivo e lo apre indefinitamente a Qualcosa o a Qualcuno che lo supera.
Il Natale è pieno del senso di questo mistero. Il silenzio e la fragilità di cui parlavamo ne sono la manifestazione. Dio in questo evento rivela se stesso. Ma ci aiuta anche a riconoscere qualcosa di essenziale per riconoscerci nella nostra autenticità. Il solstizio d’inverno non può fare questo. Si può essere credenti o no, ma per tutti il Natale è una risorsa preziosa, a cui non dovremmo rinunziare e a cui, anzi, faremmo bene ad accostarci con un po’ di maggiore consapevolezza.
(fonte: Tuttavia 22/12/2022)