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martedì 12 ottobre 2021

Ce lo chiede la scienza di Alessandro D’Avenia

ULTIMO BANCO - 91


Ce lo chiede la scienza
di Alessandro D’Avenia 

Entro a scuola e mi viene chiesta, ogni giorno, la tessera verde. Entro in classe: tutti indossiamo la mascherina per 5-6 ore. Ci sottomettiamo religiosamente al protocollo dettato dalle certezze scientifiche sulla propagazione di un virus. Vorrei allora che con lo stesso rigore seguissimo quelle relative a come il cervello apprende, perché è assurdo che facciamo, da troppo tempo, il contrario di ciò che serve. Le conseguenze sono evidenti sugli studenti, affetti da quella che è stata definita «obesità informazionale», manifesta nei suoi sintomi: disattenzione, disinteresse, paura, noia, fuga, abbandono... Daniela Lucangeli, luminare nel campo dell’apprendimento (il suo A mente accesa è la riforma della scuola), già nel 2016 lavorava in una commissione ministeriale sul benessere a scuola degli alunni tra 14 e 16 anni: il 73% diceva di star male, il 23% così così. Perché? La scienza risponde: non rispettiamo, nell’età dello sviluppo, i bisogni del cervello, un organo che si modifica e cresce/decresce (ogni millesimo di secondo ognuno dei 100 miliardi di neuroni produce migliaia di sinapsi) in base a come viene stimolato. L’intelligenza è un aprirsi continuo di connessioni. Diciamo infatti che studiare «apre» la mente. Ma come si apre? E che significa aprire?

Il cervello dà energia e informazioni a tutto il sistema nervoso, in modo che il corpo agisca. Le informazioni viaggiano in tre modi: fuori-dentro (la lezione, lo studente ascolta l’insegnante: assimila), dentro-fuori (la prestazione o verifica, lo studente dice ciò che sa all’insegnante: ripete). Lo sviluppo del cervello non sta però in queste due modalità per lo più passive (assimilare/ripetere), ma in una terza, attiva, dentro-dentro: lo studente afferra ciò che l’altro sa e lo collega a ciò che lui è, cioè seleziona ciò di cui ha bisogno per generare vita nuova e duratura, come le radici traggono dalla terra solo quel che serve a svilupparsi. L’intelligenza cresce quindi quando io faccio mio, carne della mia carne, il sapere, trasformandolo e rinnovandolo. La scuola di oggi spesso marginalizza l’apprendimento attivo a lungo termine, privilegiando assimilazione-ripetizione (io insegno - tu apprendi - io verifico), cioè allena le funzioni cognitive dell’apprendimento passivo a breve termine. Infatti ottiene studenti che scoprono poco e forniscono prestazioni nell’immediato, ma che, dopo la verifica, dimenticano rapidamente quasi tutto. L’intelligenza non cresce se tutte le energie cerebrali sono impiegate a stabilizzare prestazioni e procedure: come riempire lo zaino per una scalata con così tante cose che poi non si riesce a camminare. Il cervello «ingozzato» non può trasformare in energia il nutrimento e deve quindi, come lo stomaco, liberarsi dall’eccesso di informazioni per usare l’energia per fare ciò che è suo nell’età dello sviluppo: scoprire, far crescere la persona e le sue potenzialità. Semplificando: passiamo il tempo a insegnare a nuotare con dettagliate istruzioni senza mai entrare in acqua o far venire voglia di entrarci. E che cosa serve per rendere l’apprendimento attivo? L’insegnante non è chiamato solo a conoscere la disciplina (attualmente i docenti sono selezionati in base alle nozioni e non anche alla capacità di creare un ambiente di apprendimento), ma a «energizzare» (erotizzare nel lessico del desiderio) le informazioni, perché a governare la mente è la parte più antica del cervello, deputata alle emozioni. Le emozioni alimentano il cervello perché dica al corpo cosa fare (emozioni positive danno picchi energetici alti e brevi, per dire: torna presto; quelle negative picchi bassi e duraturi: scappa sempre). Quel che apprendo si salda a ciò che provo in quel momento (gioia o paura), perché l’atto cognitivo diventa tutt’uno con le emozioni che veicolano l’informazione: associo la matematica alla paura di sbagliare che avevo da bambino, e se mi chiedono le tabelline, a 44 anni, mi confondo. È un meccanismo chiamato «impotenza appresa» (il «cervello chiuso») che blocca l’apprendimento nonostante le capacità di base (prima di dire «non è portato» bisogna chiedersi «è stato portato?»). Il nodo emozione negativa/informazione si spezza infatti solo con le “emozioni antagoniste”, cioè opposte a quelle provate in passato: è stato calcolato che un solo incoraggiamento modifica un errore commesso più di 89 rimproveri. Lo sguardo sorridente e una mano sulla spalla restano i più potenti generatori di intelligenza. Ma nella scuola di oggi, tra burocrazia e supplentite, gli insegnanti sono messi nelle condizioni di curare così i ragazzi?

L’apprendimento attivo a lungo termine in un contesto educativo di emozioni positive «apre» l’intelligenza: curiosità, attenzione, interesse, scoperte, tenuta... Questo è ciò che la scuola può e deve fare contro la pandemia di cervelli «chiusi» e «tristi». Ce lo chiede la scienza. O i ragazzi?