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domenica 3 ottobre 2021

3 ottobre / Giornata della memoria e dell’accoglienza - Se Italia e Europa finanziano gli aguzzini (di Nello Scavo) - Non c’è futuro senza memoria (di Marta Bernardini)

3 ottobre / Giornata della memoria e dell’accoglienza

Se Italia e Europa finanziano gli aguzzini

Dietro ad ogni morte e ad ogni salvataggio in mare c’è un sistema politico-criminale ben conosciuto che usa le persone migranti come un’arma negoziale con cui ricattare l’Europa. Un sistema legato direttamente al potere di Tripoli e ai suoi finanziatori internazionali che non può prosperare senza il consenso e spesso la complicità di chi oggi afferma di voler porre fine al traffico di migranti


Guardia costiera libica (Credit: Getty)

Li hai mai contati trecentosessanta secondi? E poi altri trecentosessanta? E adesso prova a pensare alle migliaia di vite umane appese a quel numero. La probabilità che un uomo caduto in mare possa essere avvistato a distanza d’orizzonte – non più di 6 miglia nautiche, 9 chilometri – da una natante di passaggio, è infatti di 1 ogni 6 minuti.

Ѐ una delle prime cose che ti insegnano sulle navi di salvataggio dei migranti. Ed è il modo migliore per spiegarti che quando stai a bordo devi tenere lo sguardo sempre rivolto all’esterno. Perché una probabilità ogni sei minuti è troppo poco per salvare qualcuno. Da quel momento, da quando scopri che la corsa delle lancette segna il tempo tra la vita e la morte, c’è una domanda che non ti abbandonerà più: lì fuori non c’è nessuno che chiede aiuto, oppure non lo abbiamo visto?

Eppure non è di questo che si discute nei consessi internazionali. Le vite a perdere non valgono un barile del petrolio che le potenze regionali e le assetate economie avanzate si contendono.

Com’è possibile movimentare ogni giorno migliaia di persone, percorrere impossibili rotte desertiche, attraversare confini polverosi, raccogliere e trasferire denaro, fornire carburante alle centinaia di mezzi di trasporto, ottenere i lasciapassare, governare i centri di raccolta e poi gestire la flotta per il viaggio via mare – per molti l’ultima tappa in ogni senso – e tutto questo senza dare nell’occhio?

Alle volte li restituisce il mare. Altre vengono scoperti per caso in una buca. Altre ancora giacciono, semisepolti dalla sabbia, spolpati dalle iene. Un migrante ha un solo modo per vivere, e molti per morire. Se sopravvivi al Sahara, se scampi ai lager in Libia, se alle spalle ti sei lasciato il Mediterraneo, solo allora è fatta.

«Mi chiamo Badewbo, e non mi voglio lamentare. Ci sono dei miei amici che qui, in salvo, non ci sono mai arrivati. Quindi, alla fine, si può dire che sono stato fortunato». Testimonianze così non hanno niente di inedito per chi ogni giorno ascolta le voci dei superstiti. «Certo che giocare sarebbe stato più facile. Ma noi – ha raccontato Badewbo agli operatori di Save the Children una volta sbarcato in Sicilia – eravamo poveri e quando si è presentata l’occasione di farmi andare in Libia, i miei genitori hanno stretto gli occhi per non far uscire le lacrime». E gli hanno detto, «va bene».

Le colonne di migranti che risalgono il deserto non sanno nulla delle mutevoli tempeste di sabbia nei fortini della politica. I fuoristrada dell’Oim, l‘Organizzazione mondiale delle migrazioni Onu, in Niger hanno fatto in tempo, poche settimane fa, a dare da bere a una dozzina di subsahariani che da otto giorni non mangiavano e nelle taniche non avevano più neanche un goccio d’acqua. I passeur li avevano abbandonati nella terra di nessuno al limitare tra Libia, Tunisia e Niger.

«Una filiera del genere non può passare inosservata. E non può prosperare senza il consenso e spesso la complicità di chi oggi afferma di voler porre fine al traffico di migranti». L’investigatore Onu che parla sotto anonimato si fa precedere da un rapporto di 299 pagine inviato al Consiglio di sicurezza nelle scorse settimane. Un dossier che le cancellerie conoscono, a cominciare dall’Italia che quest’anno è membro non permanente proprio del consiglio di sicurezza.

Nel faldone ci sono nomi che scottano. Come quello di Fathi al-Far, comandante della brigata al-Nasr. L’ex colonnello dell’esercito di Gheddafi, «ha aperto un centro di detenzione a Zawiyah», sulla costa occidentale a metà strada tra Tripoli e Zuara. Il gruppo di investigatori «ha ricevuto informazioni secondo cui il centro di detenzione è usato per “vendere” i migranti ai contrabbandieri».

Nella primavera del 2020 da Messina arriva un’altra conferma. E non ha precedenti giudiziari dello stesso tenore. Due nordafricani e un subsahariano accusati di essere dei feroci torturatori nel campo di prigionia ufficiale di Zawyah sono stati condannati a 20 anni di carcere ciascuno. La lettura delle motivazioni della sentenza di primo grado suonano come un atto d’accusa alle autorità di Tripoli e ai paesi che le sostengono.

«L’agire dei carcerieri – hanno provato a spiegare i loro avvocati – non sarebbe riconducibile a logiche criminali, bensì rientrerebbe nella “politica” di gestione dei migranti praticata dal governo libico attraverso l’istituzione di “centri di detenzione” per i clandestini». E il «pagamento di somme di denaro non rappresenterebbe un riscatto, ma una sorta di “cauzione”». Tesi che il giudice ha respinto.

Il campo di prigionia di Zawyah è uno dei centri sotto il controllo diretto del governo, che lo ha affidato alla milizia al-Nasr, una banda armata comandata dai fratelli Kachlaf che avevano posto a capo della guardia costiera e del porto petrolifero il comandante Bija, arrestato a inizio ottobre 2020 e prosciolto sei mesi dopo, perciò promosso al gradi di maggiore della marina. Il “direttore” del centro è Ossama, cugino di Bija, mentre i Kachlaf controllano personalmente a Zawyah, sempre su concessione del governo, la più grande raffineria in attività di tutta la Libia.

Intanto le Nazioni Unite, la Commissione europea, il Dipartimento di Stato Usa e il governo britannico hanno confermato le sanzioni nei confronti del discusso guardacoste, indicato dai migranti ascoltati numerose volte dalla squadra mobile di Agrigento come “il capo dei capi” nei campi di prigionia annessi a strutture petrolifere e a pochi passi dal porto petrolifero di Zawyah, di cui Bija resta il supervisore.

Per i giudici non ci sono dubbi. Il sistema politico-criminale di Zawyah è una macchina fatta di ingranaggi mafiosi legata direttamente al potere ufficiale di Tripoli e ai suoi finanziatori internazionali. I migranti sono l’asset politico più importante.

Un’arma negoziale con cui ricattare l’Europa e tenere a bada le milizie avversarie, secondo modalità «volte alla individuazione e alla cattura, per il tramite di soggetti complici, spesso appartenenti alle milizie locali corrotte, di individui – si legge nella sentenza – provenienti da diverse regioni del continente africano che, versando in situazioni di assoluta miseria, confluiscono in Libia nella speranza di raggiungere via mare il continente europeo».

L’equazione in Libia non cambia. Per ogni migrante messo in mare per raggiungere l’Europa, un altro viene intercettato. Ѐ così che si giustifica il mantenimento della cosiddetta guardia costiera libica da parte di Italia e Ue, ed è così che i trafficanti riescono a proseguire nei loro affari continuando a fare pressione sull’Europa affinché continui a foraggiare le milizie attraverso il sostegno alle polizie marittime.

Indagare, però, non è conveniente. E resta fino ad ora inascoltato l’appello del procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio. «Fare comprendere agli Stati del Mediterraneo, e agli Stati europei che operano nel Mediterraneo – insiste Patronaggio – l’estrema gravità del fenomeno e indurli ad una fattiva cooperazione giudiziaria internazionale è di fondamentale importanza per contenere l’immigrazione irregolare ed arginare le inaudite violenze e le tragiche violazioni dei più elementari diritti umani, cui sono vittime gli stessi immigrati e fra essi quelli più deboli come donne e bambini».


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Non c’è futuro senza memoria

A Lampedusa tutto l’anno per ricordare le persone morte ma anche per continuare ad occuparsi dei vivi. Per denunciare la barbarie di politiche disumanizzanti, per chiedere l’istituzione di corridoi umanitari e responsabilità realmente condivise in Europa per l’accoglienza. Perché, scrive la coordinatrice di Mediterranean Hope, il tempo è ora


Ricordare le vittime del 3 ottobre 2013 significa ricordare le 40mila persone che sono morte nel Mediterraneo negli ultimi dieci anni, i morti come quelli del 30 settembre 2013 a Sampieri, un’altra costa siciliana, e tutti i corpi ancora dispersi in mare. Dispersi che non verranno probabilmente mai recuperati, assenti ma presenti per i familiari che non possono piangerli. Tutto questo con l’amara certezza che altre persone continuano a morire.

Per cercare di restituire dignità e memoria, scegliamo di rivolgere il nostro impegno simbolico e politico ricordando, dando un nome e un volto dove possibile, perché le voci non siano più sempre solo le nostre.

Siamo e saremo a Lampedusa per denunciare quanto accade: chiediamo che non ci siano altri morti alle frontiere, altre persone costrette a subire violenze, torture, a dover fuggire dal loro paese, dall’Afghanistan alla Tunisia, fino alla Libia, ovunque siano. Crediamo nell’autodeterminazione delle persone e dei popoli, e che l’Europa si debba fare carico del diritto di ognuno ed ognuna a cercare una vita migliore, dignitosa, con sogni e desideri.

Servono corridoi umanitari, vie di accesso legali, serve che l’Europa condivida la responsabilità dell’accoglienza. E nel frattempo occorre che chi salva vite in mare lo possa fare nel migliore dei modi.

12.681 sono le persone arrivate dal 1 maggio al 31 luglio su questo piccolo lembo di Sicilia. Nel mese di agosto sono arrivate a Lampedusa 5.579 persone. Di queste, 3.773 sono partite dalle coste tunisine mentre 1.804 dalla Libia. Moltissime quelle respinte dalla cosiddetta guardia costiera libica e riportate in carceri infernali. Persone a cui vanno garantiti diritti, dignità, una possibilità di futuro.

Saremo a Lampedusa dunque – non solo in questi giorni ma tutti i giorni dell’anno – per ricordare le persone morte ma anche per continuare ad occuparci dei vivi. Donne, uomini, bambini e bambine che arrivano al molo, dopo giorni di navigazione in mare aperto. Ci guardano, spesso sembrano “morti viventi”, non ancora morti ma neanche pienamente vivi, de-umanizzati, camminano a stento.

Altre volte, con i loro sguardi, corpi dritti, affermano la loro determinazione, la resistenza alla violenza della frontiera, combattenti felici di avercela fatta. Sono sopravvissuti e sopravvissute, spesso all’orrore dei lager libici, altre volte allo sfruttamento delle risorse, altre ancora a crisi climatiche, politiche e democratiche di cui sappiamo sempre troppo poco.

Tutte queste riflessioni rientrano nel nostro impegno ecumenico, come chiese, ad essere dalla parte di chi è reso ultimo, a non voltare lo sguardo altrove, a dire che non sapevamo.

Alla commemorazione ecumenica in programma domenica 3 ottobre a Lampedusa interverranno, tra altre voci, il pastore Luca Maria Negro, presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia e monsignor Alessandro Damiano, arcivescovo di Agrigento, a partire da un passo biblico: Deuteronomio 4, 9-14.

Il filo rosso di questo brano è la memoria, un tema biblico fondamentale: nella Bibbia la memoria fa diventare coloro che ricordano dei contemporanei di coloro che vissero gli avvenimenti ricordati. Annulla cioè in qualche modo la distanza e si struttura non solo una solidarietà ma anche una immedesimazione nell’altro, nell’altra.

Il riferimento al mantenere viva la memoria indica inoltre un aspetto educativo e di testimonianza, la volontà di raccontare, di lasciare un segno per chi verrà dopo di noi. Diceva giustamente Greta Thunberg in questi giorni che «è ora di dire basta al bla bla bla» per le politiche sul clima, così strettamente connesse anche ai flussi migratori. Siamo d’accordo, il tempo è ora, per coltivare memoria e costruire così anche un futuro più umano.

(fonte: Nigrizia, articolo di Marta Bernardini - coordinatrice di Mediterranean Hope, programma rifugiati e migranti della Federazione delle chiese evangeliche in Italia - 2 Ottobre 2021)

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Vedi anche il post precedente