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lunedì 4 novembre 2019

"RUINI, QUANDO IL SILENZIO È D'ORO" di Luigi Alici

"RUINI, QUANDO IL SILENZIO È D'ORO" 
di Luigi Alici,
filosofo, professore ordinario all'Univeristà di Macerata.
(Presidente Nazionale dell'Azione Cattolica Italiana dal 2005 al 2008)




Inopportuna. Lo confesso: questo è stato il primo aggettivo che mi è venuto in mente, leggendo l'intervista del cardinale Camillo Ruini, apparsa oggi sul "Corriere della sera". Un'intervista - lo confesso - che non mi ha stupito, ma che ha ferito profondamente la mia coscienza di credente; chi conosce la mia storia personale ne può immaginare la ragione. Sono consapevole dei miei limiti, non mi sento in condizione di dare lezioni a chicchessia. Eppure, sento dal più profondo di me stesso di non poter tacere.

Non vorrei entrare nel merito dei contenuti specifici dell'intervista, anche se non posso non segnalare due aspetti che meriterebbero un approfondimento. 
Il primo aspetto riguarda il giudizio su Salvini, che minimizza un quadro ideologico generale (fatto di egoismo sovranista e di pulsioni autoritarie, di disprezzo esplicito del diverso con venature razziste nemmeno tanto nascoste, di complicità opache, di disinvolture finanziarie e di equivocità di rapporti internazionali), massimizzando alcuni aspetti (come certa simbologia religiosa) che francamente appaiono strumentali anche a un bambino.
Il secondo aspetto concerne il giudizio sui "preti sposati", senza un minimo di contestualizzazione, che tocca il suo punto più sgradevole a proposito della possibilità del divorzio. Non aggiungo di più.

Vorrei piuttosto segnalare un profondo sconcerto per una questione di metodo, che mi sembra particolarmente imbarazzante almeno in due casi. 
Il primo caso riguarda la sicurezza del giudizio politico (non solo su Salvini, ma anche sul cattolicesimo democratico e sullo scenario politico in generale), ma soprattutto la disinvoltura con cui si passa da questo piano a questioni relative alla vita della Chiesa, come se si trattasse di questioni che investono allo stesso titolo la responsabilità di un pastore. Ma è giusto che un uomo di Chiesa, che ha guidato per ben sedici anni la Conferenza episcopale italiana come suo Presidente, parli così? Quale spazio di autonomia di giudizio storico e di testimonianza pubblica resta al laicato cattolico, in una impostazione di questo tipo?

Il secondo caso riguarda il giudizio su alcune conclusioni del Documento finale del Sinodo amazzonico, che indirettamente si trasforma in una riserva sulla futura esortazione postsinodale del Papa, qualora si limitasse a recepire quelle conclusioni. Se anni addietro un pastore avesse manifestato un dissenso sui lavori di un importante assemblea ecclesiale, senza averne fatto parte, augurandosi che il Papa potesse prendere una strada diversa, quale sarebbe stato il giudizio del Presidente della Cei? 

Al di là delle singole questioni di merito, il messaggio complessivo che si ricava dall'intervista mi pare assomigli a una bocciatura netta nei confronti di una linea pastorale della Chiesa - italiana e universale - che a me pare francamente un atto inopportuno: in sé e per le strumentalizzazioni più che prevedibili di cui sarà oggetto. 
Un atto inopportuno che sorprende e addolora. 
Tanto. 
Davvero tanto

(Fonte: blog)

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