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giovedì 28 novembre 2019

Alessandro D'Avenia: Il cielo in una stanza

Alessandro D'Avenia:
ULTIMO BANCO
Il cielo in una stanza

Pubblicato su "Il Corriere della Sera"
il 28.10.2019




«Telemaco si recò nella stanza per andare a dormire, con molti pensieri nel cuore». Quando, lunedì scorso, ho sollevato lo sguardo dopo aver calcato la voce su queste parole del primo capitolo dell’Odissea, gli occhi dei miei ragazzi erano pieni di stupore, come dicessero: sta parlando di me? Ogni anno porto la mia prima superiore a Itaca: basta che ogni studente abbia l’Odissea sul banco (quest’anno ho scelto la bella versione di M.G.Ciani). Tutte le settimane leggiamo un canto ad alta voce (ogni alunno interpreta un personaggio), dopo aver disposto i banchi come la sala del palazzo omerico in cui, dopo il banchetto, i commensali ascoltavano i racconti. Purtroppo a scuola ci capita di far odiare i grandi libri ai ragazzi: li sostituiamo con le spiegazioni e li facciamo — è macabro — a «brani». Così diventano secondari rispetto a «ciò che c’è da sapere per l’interrogazione»: l’originale se non inutile diventa futile. Io sono convinto del contrario: i classici hanno detto il mondo in modo irripetibile, bisogna quindi lasciarli accadere perché, come nella vita, si desidera conoscere meglio solo ciò di cui ci s’innamora, anche se richiede impegno. Dopo anni di letture integrali posso dire che i ragazzi fanno esperienza (diventano cioè esperti) del testo vivendolo e non vivisezionandolo. Leggere per intero l’Odissea sembra folle, ma è più semplice di quanto sembri. Come?
I 24 capitoli dell’Odissea sono lunghi in media 500 versi, una dozzina di pagine in prosa che si leggono ad alta voce in mezz’ora: per leggerla interamente ci vogliono quindi solo 12 ore. Io me la prendo comoda e impegno un’ora alla settimana: mezz’ora per la lettura e mezz’ora per le domande. Nella mia esperienza, i primi canti catturano l’attenzione proprio perché sono dedicati al figlio di Odisseo, Telemaco, che, senza padre, subisce i soprusi dei Pretendenti che occupano il palazzo, in attesa che Penelope scelga uno di loro come marito e nuovo re di Itaca. Perché Omero comincia dal ragazzo? Il poema in realtà si apre su Atena, patrona di Odisseo, che ricorda a Zeus che è ora di far tornare a casa il suo beniamino, dopo anni di guerra e viaggi. Il padre degli dei acconsente e manda Ermes a liberare Odisseo dall’isola di Calipso e Atena a Itaca da Telemaco. Tutto comincia con il figlio dell’eroe, perché Itaca è il fine e la fine del poema. Odisseo, al momento della chiamata alle armi dei re greci, aveva cercato di non partire fingendosi pazzo. Palamede lo aveva infatti trovato a seminare e arare la sabbia, ma poiché ne conosceva la scaltrezza, aveva posto il neonato Telemaco sul percorso: Odisseo si ferma, tradendo la sua messa in scena, e deve perciò partire. Da anni di lui non si sa più nulla, e così Atena arriva sull’isola con notizie recenti, fingendosi un amico dell’eroe e invita Telemaco all’azione: «Non sei più un bambino… mostrati audace». Non gli risolve il problema, anzi alimenta il dolore dell’assenza paterna e lo spinge a prendere la via del mare per cercare notizie presso gli eroi tornati sani e salvi da Troia: se suo padre è ancora vivo lo aspetti resistendo ancora o lo aiuti a tornare, se invece è morto, ne prenda il posto lottando, costi quel che costi. La presenza di Odisseo è solo indiretta: è nelle sembianze e nella nostalgia di Telemaco, «colui che combatte (-maco) da lontano» (tele- è la stessa parolina che trovate in telefono e televisione), nome perfetto per un adolescente chiamato a maturare, inseguendo qualcosa che non è né facile né a portata di mano, come il suo futuro. Ma può combattere per ciò che intravede «da lontano» e mettersi in mare (nel mondo omerico significa affrontare la morte), perché qualcuno lo spinge al suo compimento. Perché l’Odissea si compia, il padre deve tornare a casa e il figlio uscirne, i due movimenti, apparentemente opposti, sono un’unica azione: essere fedeli a se stessi.

Il primo libro dell’Odissea è una vertigine, il cielo si tuffa nella stanza e nel cuore di un ragazzo: «E là per tutta la notte, avvolto in morbida lana, Telemaco pensava in cuor suo al viaggio che gli aveva suggerito la dea Atena». Telemaco perde il sonno, finalmente la sua vita ha «senso»: direzione e significato. Se vuole maturare deve lasciare le comodità e gli alibi infantili: lo farà trasformando in destinazione proprio quello che sembra un destino paralizzante. Se oggi molti ragazzi rinunciano a muoversi è perché non c’è niente per cui mettersi in viaggio e lottare da lontano. La loro stanza spesso resta un parco di illusioni più che un porto da cui salpare nei mari del futuro. Telematici più che telemachici, privati del desiderio di rischiare e crescere, rischiano di restare piccoli e impauriti. Leggere l’Odissea per intero può essere un piccolo antidoto, ma solo se noi adulti, per primi, ritroveremo il coraggio di riportare il cielo in una stanza, in un’aula, in una testa, in un cuore.