“Vegliate, cercate di capire, siate pronti...”
Commento al Vangelo della domenica
a cura di Luciano Manicardi
Priore della Comunità di Bose
I domenica di Avvento – Anno A
Letture: Isaia 2,1-5; Salmo 121; Romani 13,11-14; Matteo 24,37-44
Mt 24,37-44
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:«37Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell'uomo. 38Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell'arca, 39e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell'uomo. 40Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l'altro lasciato. 41Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l'altra lasciata. 42Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. 43Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. 44Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell'ora che non immaginate, viene il Figlio dell'uomo.»
Con la prima domenica di Avvento prende avvio un nuovo ciclo liturgico. Il ricominciamento non va per nulla colto come segno di monotona ripetitività, ma anzi, è buona notizia del ricominciamento sempre possibile al credente. Nella vita di fede noi siamo chiamati a ricominciare, quale che sia la situazione in cui ci troviamo, credendo maggiormente alla misericordia di Dio che all’evidenza della nostra debolezza e del nostro peccato. L’inizio di un nuovo anno liturgico è poi sempre caratterizzato da una pagina evangelica che pone l’accento sulla parusía, la venuta gloriosa del Figlio dell’uomo. Venuta che situa il credente nell’attesa. E l’attesa è un movimento umano e spirituale tutt’altro che scontato. Nei tempi della velocizzazione e della produttività, l’attesa è sentita come tempo morto, perdita di tempo. L’attesa invece è lavoro spirituale che prepara il futuro anticipandolo, sperandolo, invocandolo. L’attesa è una soglia. Soglia tra ora e dopo, tra oggi e domani, tra tempo ed eternità, tra storia e Regno di Dio. Nell’attesa il futuro, prossimo o remoto che sia, già abita il presente almeno nel nostro spirito. Si tratti di attendere una persona cara che dovrebbe arrivare entro pochi minuti, o di attendere la fine di una guerra, o l’avvento del Regno di Dio, sempre l’attesa prepara il futuro intervenendo nel presente, operando mutazioni già nel presente.
E la pagina evangelica di questa domenica dell’annata liturgica A, tratta dal Vangelo secondo Matteo, presenta un passo del discorso escatologico che Gesù rivolge ai suoi discepoli, mostrando la dimensione giudiziale dell’annuncio della venuta del Signore e la sua capacità di interpellare l’oggi del credente. In particolare, le parole di Gesù portano un giudizio sull’incoscienza e sull’ignoranza colpevoli con cui si anestetizzano gli uomini nel loro vivere il quotidiano.
Dopo aver annotato che nessuno conosce il giorno e l’ora della venuta del Signore (cf. Mt 24,36), Gesù sviluppa il tema dell’ignoranza del quando della parusía, istituendo un parallelo tra ciò che accadde alla generazione dei contemporanei di Noè, quando venne il diluvio, e ciò che avverrà alla venuta del Figlio dell’uomo. Gesù dunque si rifà alla narrazione presente in Gen 6,5-7,24. La generazione dei contemporanei di Noè non è descritta né come malvagia né come empia, ma semplicemente come incosciente, inconsapevole. I contemporanei di Noè “mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito” e in questo non vi è nulla di reprensibile. E non vi è nemmeno se vi aggiungiamo ciò che esplicita Luca nel passo parallelo: “compravano, vendevano, piantavano, costruivano” (Lc 17,28). Si tratta della quotidianità, delle attività vitali quotidiane di ogni persona. Il problema non è il che cosa, ma il come. Con il parallelo del diluvio, Gesù mette in guardia a non annegare nella banalità dei giorni, in un quotidiano divenuto orizzonte totalizzante di un’esistenza che così diviene cieca, inconsapevole di sé. L’annotazione soltanto di Matteo, che i contemporanei di Noè “non si accorsero di nulla” (Mt 24,39), mette il dito sulla piaga: viene stigmatizzata la non vigilanza, e dunque l’irresponsabilità.
Secondo i midrashim, cioè i commenti esegetici ebraici, che interpretano il racconto del diluvio, Noè era sbeffeggiato, deriso e giudicato pazzo dai suoi contemporanei perché compiva un’opera insensata. Si dice che essi ponevano domande irridenti a Noè chiedendogli che bisogno avesse di ciò che stava costruendo e non si rendevano conto che erano loro stessi che ne avevano bisogno. Noè seppe discernere il suo presente e così salvò se stesso e il futuro: il discernimento dell’oggi salva il futuro: “Per mezzo di Noè un resto sopravvisse sulla terra quando venne il diluvio” (Sir 44,17). Lo sguardo di Dio, di cui Noè è messo al corrente, vede ciò che la situazione presente di benessere e di tranquillità, prepara. Dio, e con lui Noè, vede al di là del momentaneo. La follia, o il genio, o la santità, o forse un po’ di tutte e tre queste cose, porta Noè a compiere un gesto coraggioso che salverà il futuro, ma che ha dovuto affrontare l’incomprensione e il dileggio. Come sempre avviene a chi vede al di là del quotidiano, del presente, o vede ciò che quel presente tiene in serbo per il futuro o vede in che cosa si convertirà quel presente.
La drammaticità della situazione dei contemporanei di Noè consiste nel fatto che perirono e non si resero conto di nulla. Perirono due volte: fisicamente, perché spazzati via dal diluvio, ma anche spiritualmente, perché non capirono e non si resero conto di nulla quando ne avrebbero avuto la possibilità. Così l’evento calamitoso diviene giudizio sul modo di vivere precedente la calamità. Matteo stigmatizza l’incoscienza, il vivere senza discernimento. Non perché questo eviti la calamità. Noè non ha evitato il verificarsi del diluvio, ma ha potuto attraversarlo. Sì, la nostra quotidianità può trasformarsi in catastrofe. Non è forse nel banale scorrere dei giorni che spesso si preparano i nostri disastri esistenziali e relazionali? Non ci succede, di fronte all’incrinarsi e allo spezzarsi di una relazione coniugale, alla fine traumatica di un’amicizia, al suicidio di una persona cara, di ritrovarci a pensare, a un certo punto, e a dirci “avrei dovuto”, “perché ho detto questo e non ho invece taciuto?”, “perché ho agito così e non in un altro modo?”. Ripensiamo a dettagli, a un battere di ciglia, a un gesto o a una parola a cui al momento non abbiamo accordato importanza e che, ora, con il senno di poi, ci appare carico di presagi di ciò che sarebbe poi successo. E magari ci colpevolizziamo. Anche l’ineluttabile infatti, ha una storia, anche l’ineluttabile è preparato nel quotidiano. Anche ciò che quando avviene è ineluttabile, in verità è stato preparato più o meno coscientemente dai nostri gesti, dai nostri comportamenti, dalle nostre parole o dalle nostre omissioni. Annunciando la venuta gloriosa Gesù illumina il nostro oggi, il nostro quotidiano e ci avverte che è nella superficialità che si annega, non nella profondità.
Il discorso di Gesù prosegue nei vv. 40-41 con l’esempio dei due uomini che lavorano nei campi e delle due donne che macinano alla mola, di cui uno viene preso, cioè salvato, e l’altro lasciato, cioè abbandonato al disastro. Di nuovo Matteo presenta la portata giudiziale della parusía che mette in luce ciò che prima poteva restare celato e smaschera ciò che prima era invisibile. I due che erano insieme si trovano divisi, separati. Ciò che era nascosto viene alla luce. “Non vi è nulla di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto” (Mt 10,26). Se i contemporanei di Noè “non si accorsero di nulla, non capirono nulla”, di questi uomini e di queste donne si può dire che “non si conobbero”. Nulla sembrava distinguerli, impegnati come erano nello stesso compito, lavorando accanto l’uno all’altro; vivevano accanto ma erano profondamente distanti. Potremmo chiederci: Si conoscevano davvero? La venuta del Signore è momento di svelamento della verità. La differenza si gioca nell’invisibile interiorità, là dove abita anche la verità personale di ciascuno.
La parte finale del testo (vv. 42-44) è esortativa e con tre imperativi dice in che cosa consista la vigilanza: “vegliate”, “cercate di capire” (lett.: “sappiate”), “siate pronti”. La motivazione, anch’essa tre volte ripetuta, è sempre l’ignoranza del giorno e dell’ora della parusía. Non essendovi scampo a tale ignoranza, l’unica sapienza è quella di tenere gli occhi ben aperti, di essere svegli, di non intontirsi e non cadere nell’ottundimento dei sensi; è quella di cercare di essere pronti, attenti, dunque consapevoli e responsabili, non come i contemporanei di Noè. Sì, il Figlio dell’uomo verrà come un ladro (“Ecco, io vengo come un ladro”: Ap 16,15; cf. 3,3): se il quando è incerto, la sua venuta è certezza. Si veglia, dunque, e ci si tiene pronti, e si attende una persona, cercando di ravvivare nell’oggi il desiderio della sua venuta. La vigilanza cristiana nasce in rapporto con la persona di Gesù Cristo che è venuto e che verrà: è l’ambito in cui avviene la relazione con il Signore, dunque lo spazio vitale della fede, della speranza e della carità. Ma anche lo spazio di una umanità desta, sveglia, attenta, luminosa. La vigilanza è atteggiamento globale dell’uomo di attenzione alla presenza del Signore, di tensione interiore per discernere la sua presenza e di apertura radicale di tutto l’essere alla sua venuta. Così l’annuncio della venuta gloriosa del Signore proietta una luce che giudica e orienta anche il nostro modo di vivere il tempo, in particolare il quotidiano. Quel quotidiano fatto di gesti ripetuti, di relazioni consuete, di abitudini che necessitano di essere illuminati e vivificati per non divenire la tomba del nostro vivere, facendolo cadere nell’inerzia e nell’insapore.