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mercoledì 18 settembre 2019

Papa Francesco in Mozambico: Incontro con vescovi, sacerdoti, religiosi/e ...: "Fratelli e sorelle, la Chiesa chiede capacità di compassione ... Il proselitismo non è evangelizzazione. Il proselitismo non è cristiano." - Visita privata alla Casa “Matteo 25” (foto, testi e video)

VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO
IN MOZAMBICO, MADAGASCAR E MAURIZIO
(4 - 10 SETTEMBRE 2019)



Giovedì, 5 settembre 2019

MAPUTO
16:15 Incontro con i Vescovi, Sacerdoti, Religiosi/e, Consacrati e Seminaristi, Catechisti e Animatori nella Cattedrale dell’Immacolata Concezione
17:25 Visita privata alla Casa “Matteo 25”


A Maputo, nel pomeriggio, Papa Francesco nella nunziatura apostolica, prima di andare in cattedrale, incontra una delegazione della diocesidi Xai Xai duramente colpita dalle inondazioni che nel 2000 sommersero la città capoluogo con tre metri di acqua e fango. Allora, da arcivescovo di Buenos Aires, gemellò la sua diocesi con Xai-Xai, per portare aiuti e solidarietà






INCONTRO CON I VESCOVI, I SACERDOTI, RELIGIOSI/E,
CONSACRATI E SEMINARISTI, CATECHISTI E ANIMATORI
Cattedrale dell’Immacolata Concezione (Maputo)
Giovedì, 5 settembre 2019

Dopo alcuni canti accompagnati dalla danza di alcune religiose, ad accogliere il Papa con un breve saluto è monsignor Hilario da Cruz Massinga, il vescovo responsabile per il clero e la vita consacrata in Mozambico. E’ lui ad esprimere a Francesco la gioia di tutti i presenti e a presentargli una Chiesa che “in comunione missionaria”, testimonia “la gioia del Vangelo nei più diversi contesti della vita della società mozambicana, nonostante, in alcune persone consacrate, ci siano tendenze alla mondanità e un certo disordine”.

Prendono poi la parola un sacerdote, una religiosa e un catechista. Il primo riferisce al Papa di una vita sacerdotale che conosce difficoltà e persino avversità: c’è la mancanza di mezzi, c’è il problema dell’inculturazione della fede ancora insufficiente, ma soprattutto c’è a volte nei sacerdoti poca coerenza di vita. “Troppa preoccupazione per il nostro benessere personale, soprattutto per quanto riguarda le risorse economiche per la nostra sussistenza, confessa al Papa il sacerdote, ci porta spesso a percorrere strade tortuose che, invece di facilitare il nostro ministero, lo rendono sempre più difficile, causando anche innumerevoli defezioni tra noi”. Parla di una “crisi dell’identità sacerdotale” chiedendo l’aiuto di Francesco per superarla.

“Noi religiose e religiosi (…) cerchiamo di essere un segno profetico attraverso il nostro impegno e inserimento nel lavoro pastorale, in particolare nel mondo dell'educazione, della salute, della promozione della donna e della cura dei poveri, degli anziani e dei vulnerabili” , dice al Papa una religiosa esprimendogli poi la difficoltà di vivere immersi “in una società troppo materialistica” che porta alla superficialità, “all’indulgenza verso se stessi, alle pratiche pagane e alla tendenza a presentarci alla società come una semplice organizzazione civile”, a carattere filantropico. Le domande al Papa sono dunque come essere più fedeli alla vocazione religiosa e come fare perchè i giovani riscoprano “la bellezza della consacrazione al Signore”.

“Siamo laici e facciamo parte di un popolo eroico, che soffre da molti anni, al suo interno, per le carenze del sottosviluppo e i mali dell'instabilità politica ed economica del nostro Paese”, esordisce nel suo saluto un catechista. E racconta dell'impegno dei catechisti per l’evangelizzazione delle nuove generazioni. C’è necessità di maggiore formazione dei cristiani, dice e poi parla della questione dell’inculturazione della fede. “Ci sono ancora molti valori delle nostre culture che sono esclusi – afferma -, lasciando stranamente spazio ai controvalori dei popoli ricchi che invadono continuamente la nostra società attraverso le nuove tecnologie e i mezzi di comunicazione sociale”. "Come essere veramente cristiani e veramente africani?", è la sua domanda al Papa.















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DISCORSO DEL SANTO PADRE

Cari fratelli Cardinali,
fratelli Vescovi,
Cari sacerdoti, religiose, religiosi e seminaristi,
Cari catechisti e animatori di comunità cristiane,
Fratelli e sorelle, buon pomeriggio!

Ringrazio Mons. Hilario per le parole di benvenuto che mi ha rivolto a nome di tutti voi. Con affetto e viva gratitudine vi saluto tutti. So che avete fatto un grande sforzo per essere qui. Insieme, vogliamo rinnovare la risposta alla chiamata che una volta ha fatto ardere i nostri cuori e che la Santa Madre Chiesa ci ha aiutato a discernere e confermare con la missione. Grazie per le vostre testimonianze, che parlano dei momenti difficili e delle gravi sfide che vivete, riconoscendo limiti e debolezze, ma anche ammirando la misericordia di Dio. Mi ha fatto piacere sentire dalla bocca di una catechista: “Siamo una Chiesa inserita in un popolo eroico”. Grazie! Un popolo che è esperto nel soffrire ma mantiene viva la speranza. Con questo sano orgoglio per il vostro popolo, che invita a rinnovare la fede e la speranza, vogliamo rinnovare il nostro “sì” oggi. Com’è contenta la Santa Madre Chiesa nel sentire dalle vostre labbra l’amore per il Signore e per la missione che vi ha affidato! Com’è contenta nel vedere il vostro desiderio di ritornare sempre al «primo amore» (Ap 2,4)! Chiedo allo Spirito Santo di darvi sempre la lucidità di chiamare la realtà con il suo nome, il coraggio di chiedere perdono e la capacità di imparare ad ascoltare ciò che Lui vuole dirci.

Cari fratelli e sorelle, ci piaccia o no, siamo chiamati ad affrontare la realtà così com’è. I tempi cambiano e dobbiamo riconoscere che spesso non sappiamo come inserirci nei nuovi tempi, nei nuovi scenari; possiamo sognare le “cipolle d’Egitto” (cfr Nm 11,5), dimenticando che la Terra Promessa si trova davanti, non dietro, e in questa nostalgia dei tempi passati ci andiamo pietrificando, ci andiamo “mummificando”. Non è una cosa buona. Un vescovo, un sacerdote, una suora, un catechista mummificato. No, non va bene. Invece di professare una Buona Notizia, quello che annunciamo è qualcosa di grigio che non attira né accende il cuore di nessuno. Questa è la tentazione.

Ci troviamo in questa cattedrale, dedicata all'Immacolata Concezione della Vergine Maria, per condividere come famiglia ciò che ci accade; come famiglia nata da quel “sì” che Maria disse all’angelo. Ella, nemmeno per un momento guardò indietro. Chi racconta questi eventi dell’inizio del mistero dell’Incarnazione è l’evangelista Luca. Nel suo modo di farlo, forse possiamo scoprire le risposte alle domande che avete formulato oggi – vescovi, sacerdoti, suore, catechisti… I seminaristi non le hanno fatte! [ridono] – e trovare anche lo stimolo necessario per rispondere con la stessa generosità e prontezza di Maria.

San Luca presenta in parallelo gli avvenimenti relativi a San Giovanni Battista e quelli concernenti Gesù Cristo; intende così, dal confronto, farci scoprire ciò che si va estinguendo del modo di essere di Dio e del nostro rapportarci con Lui nell’Antico Testamento, e il nuovo modo che ci porta il Figlio di Dio fatto uomo. Un modo, nell’Antico Testamento, che si estingue, e un altro modo nuovo che Gesù porta.

Risalta il fatto che, in entrambe le Annunciazioni - quella di Giovanni Battista e quella di Gesù – c’è un angelo. Tuttavia, in un caso, l’apparizione avviene in Giudea, nella città più importante – Gerusalemme – e non in un luogo qualsiasi, ma nel tempio e, al suo interno, nel Santo dei Santi; l’angelo si rivolge a un uomo, per di più sacerdote. Mentre l’annuncio dell’Incarnazione avviene in Galilea, la più remota e conflittuale delle regioni, in un piccolo villaggio – Nazareth –, in una casa e non nella sinagoga o in un luogo sacro, è rivolto a una persona laica e per di più donna – non a un sacerdote, non a un uomo. Il contrasto è grande. Cosa è cambiato? Tutto. Tutto è cambiato. E, in questo cambiamento, si trova la nostra identità più profonda.

Mi chiedevate che cosa fare riguardo alla crisi dell’identità sacerdotale, come combatterla. A proposito, quello che sto per dire dei sacerdoti è qualcosa che tutti (vescovi, catechisti, consacrati, seminaristi) siamo chiamati a coltivare e promuovere. Parlerò per tutti.

Di fronte alla crisi dell’identità sacerdotale, forse dobbiamo uscire dai luoghi importanti e solenni; dobbiamo tornare ai luoghi in cui siamo stati chiamati, dove era evidente che l’iniziativa e il potere erano di Dio. Nessuno di noi è stato chiamato per un posto importante, nessuno. A volte senza volerlo, senza colpa morale, ci abituiamo a identificare la nostra attività quotidiana di sacerdoti, religiosi, consacrati, laici, catechisti, con determinati riti, con riunioni e colloqui, dove il posto che occupiamo nella riunione, alla mensa o in aula è gerarchico; somigliamo più a Zaccaria che a Maria. «Credo che non esageriamo se diciamo che il sacerdote è una persona molto piccola: l’incommensurabile grandezza del dono che ci è stato dato per il ministero ci relega tra i più piccoli degli uomini. Il sacerdote è il più povero degli uomini – sì, il sacerdote è il più povero degli uomini – se Gesù non lo arricchisce con la sua povertà, è il più inutile servo se Gesù non lo chiama amico, il più stolto degli uomini se Gesù non lo istruisce pazientemente come fece con Pietro, il più indifeso dei cristiani se il Buon Pastore non lo fortifica in mezzo al gregge. – La debolezza del sacerdote, del consacrato, del catechista –. Nessuno è più piccolo di un sacerdote lasciato alle sue sole forze; perciò la nostra preghiera di difesa contro ogni insidia del Male è la preghiera di nostra Madre: sono sacerdote, perché Lui ha guardato con bontà la mia piccolezza (cfr Lc 1,48)» (Omelia nella Messa Crismale, 17 aprile 2014). Fratelli e sorelle, ritornare a Nazareth, ritornare in Galilea può essere la via per affrontare la crisi d’identità. Gesù ci chiama, dopo la sua risurrezione, a ritornare in Galilea, per incontrarlo. Ritornare a Nazareth, alla prima chiamata, ritornare in Galilea, per risolvere la crisi di identità, per rinnovarci come pastori-discepoli-missionari. Voi stessi parlavate di una certa esagerazione nel preoccuparsi di produrre risorse per il benessere personale, attraverso “percorsi tortuosi” che spesso finiscono per privilegiare tempi e compiti pagati dallo Stato e creano resistenze a dedicare la vita alla pastorale quotidiana. L’immagine di questa fanciulla semplice nella sua casa, in contrasto con tutta la struttura del tempio e di Gerusalemme, può essere lo specchio in cui vediamo le nostre complicazioni, le nostre preoccupazioni che oscurano e corrodono la generosità del nostro “sì”.

I dubbi e il bisogno di spiegazioni di Zaccaria stonano con il “sì” di Maria, che chiede solo di sapere come avverrà tutto ciò che sta per accaderle. Zaccaria non può evitare la preoccupazione di controllare tutto, non può rinunciare alla logica di essere e sentirsi responsabile e autore di ciò che accadrà. Maria non dubita, non pensa a se stessa: si abbandona, si fida. È estenuante vivere il rapporto con Dio come fa Zaccaria, come un dottore della Legge: sempre eseguendo regole, sempre considerando che lo stipendio è proporzionato allo sforzo compiuto, che è merito mio se Dio mi benedice, che la Chiesa ha il dovere di riconoscere le mie virtù e i miei sforzi... È estenuante, è estenuante vivere il rapporto con Dio come fa Zaccaria. Non possiamo correre dietro a ciò che si traduce in benefici personali; le nostre stanchezze devono invece essere piuttosto legate alla nostra capacità di compassione. Ho capacità di compassione? Sono impegni in cui il nostro cuore è “mosso” e commosso. Fratelli e sorelle, la Chiesa chiede capacità di compassione. Capacità di compassione. «Ci rallegriamo con i fidanzati che si sposano – la vita pastorale –, ridiamo con il bimbo che portano a battezzare; accompagniamo i giovani che si preparano al matrimonio e alla famiglia; ci addoloriamo con chi riceve l’unzione nel letto d’ospedale; piangiamo con quelli che seppelliscono una persona cara» (Omelia nella Messa Crismale, 2 aprile 2015). Dedichiamo ore e giorni ad accompagnare quella madre con l’AIDS, quel bambino rimasto orfano, quella nonna che si fa carico di tanti nipotini o quel giovane che è venuto in città ed è disperato perché non riesce a trovare lavoro. «Tante emozioni… Se noi abbiamo il cuore aperto, questa emozione e tanto affetto affaticano il cuore del Pastore. Per noi sacerdoti le storie della nostra gente non sono un notiziario: noi conosciamo la nostra gente, possiamo indovinare ciò che sta passando nel loro cuore; e il nostro, nel patire con loro, ci si va sfilacciando, ci si divide in mille pezzetti, ed è commosso e sembra perfino mangiato dalla gente: prendete, mangiate. Questa è la parola che sussurra costantemente il sacerdote di Gesù quando si sta prendendo cura del suo popolo fedele: prendete e mangiate, prendete e bevete… E così la nostra vita sacerdotale si va donando nel servizio, nella vicinanza al Popolo fedele di Dio… che sempre, sempre stanca» (ibid.). Fratelli e sorelle, la vicinanza stanca, stanca sempre. La vicinanza al santo popolo di Dio. La vicinanza stanca. È bello incontrarsi, un sacerdote, una suora, un catechista…, stanchi di vicinanza. Rinnovare la chiamata spesso richiede di verificare se la nostra stanchezza e le nostre preoccupazioni hanno a che fare con una certa “mondanità spirituale” dettata «dal fascino di mille proposte di consumo che non possiamo scrollarci di dosso per camminare, liberi, sui sentieri che ci conducono all’amore dei nostri fratelli, al gregge del Signore, alle pecorelle che attendono la voce dei loro pastori» (Omelia nella Messa Crismale, 24 marzo 2016). Rinnovare la chiamata, la nostra chiamata, significa scegliere, dire di sì e stancarci con ciò che è fecondo agli occhi di Dio, che rende presente, incarna il suo Figlio Gesù. Voglia Iddio che troviamo, in questa salutare stanchezza, la fonte della nostra identità e felicità. La vicinanza stanca, e questa stanchezza è santità.

Possano i nostri giovani scoprire in noi la volontà di lasciarci “prendere e mangiare”, e sia proprio questo a farli interrogare riguardo alla sequela di Gesù, in modo che, abbagliati dalla gioia di una donazione quotidiana non imposta ma maturata e scelta nel silenzio e nella preghiera, vogliano dire il loro “sì”. Tu che ancora ti stai interrogando, o tu che sei già sulla via di una consacrazione definitiva, ti renderai conto che «l’ansia e la velocità di tanti stimoli che ci bombardano fanno sì che non ci sia spazio per quel silenzio interiore in cui si percepisce lo sguardo di Gesù e si ascolta la sua chiamata. Nel frattempo, riceverai molte proposte ben confezionate, che si presentano belle e intense, ma con il tempo ti lasceranno svuotato, stanco e solo. Non lasciare che questo ti accada, perché il turbine di questo mondo ti trascina in una corsa senza senso, senza orientamento, senza obiettivi chiari, e così molti tuoi sforzi andranno sprecati. Cerca piuttosto quegli spazi di calma e di silenzio che ti permettano di riflettere, di pregare, di guardare meglio il mondo che ti circonda, e a quel punto, insieme a Gesù, potrai riconoscere quale è la tua vocazione in questa terra» (Esort. ap. Christus vivit, 277).

Quel gioco di contrasti, presentato dall’evangelista Luca – l’incarnazione a Nazareth e l’annunciazione a Zaccaria nel Tempio –, culmina nell’incontro delle due donne: Elisabetta e Maria. La Vergine visita la sua cugina anziana e tutto è festa, danza e lode. C’è una parte di Israele che ha capito il profondo e vertiginoso cambiamento del progetto di Dio: perciò accetta di essere visitata, perciò il bambino sussulta nel grembo. Per un momento, in una società patriarcale, il mondo degli uomini si ritrae, resta muto come Zaccaria. Oggi ci ha parlato anche una catechista, una suora, una donna mozambicana che ci ha ricordato che niente vi farà perdere l’entusiasmo di evangelizzare, di adempiere il vostro impegno battesimale. La vostra vocazione è evangelizzare; la vocazione della Chiesa è evangelizzare; l’identità della Chiesa è evangelizzare. Non fare proselitismo! Il proselitismo non è evangelizzazione. Il proselitismo non è cristiano. La nostra vocazione è evangelizzare. L’identità della Chiesa è evangelizzare. E questa nostra sorella rappresenta tutti quelli che vanno incontro ai loro fratelli: sia quelli che visitano come Maria, sia quelli che, lasciandosi visitare, accettano volentieri che l’altro li trasformi condividendo la loro cultura, i loro modi di vivere la fede e di esprimerla.

La preoccupazione che hai manifestato ci mostra che l’inculturazione sarà sempre una sfida, come il “viaggio” tra queste due donne che si troveranno trasformate a vicenda attraverso l’incontro e il servizio. «Le Chiese particolari devono promuovere attivamente forme, almeno iniziali, di inculturazione. Ciò a cui si deve tendere, in definitiva, è che la predicazione del Vangelo, espressa con categorie proprie della cultura in cui è annunciato, provochi una nuova sintesi con tale cultura. Benché questi processi siano sempre lenti, a volte la paura ci paralizza troppo» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 129). La paura paralizza.

La “distanza” tra Nazareth e Gerusalemme è accorciata, diventa inesistente per quel “sì” di Maria. Perché le distanze, i regionalismi e i particolarismi, la continua costruzione di muri, minano la dinamica dell’incarnazione, che ha abbattuto il muro che ci separava (cfr Ef 2,14). Voi – almeno i più anziani – che siete stati testimoni di divisioni e rancori finiti in guerre, dovete essere sempre disposti a “visitarvi”, ad accorciare le distanze. La Chiesa del Mozambico è invitata a essere la Chiesa della Visitazione; non può far parte del problema delle competenze, del disprezzo e delle divisioni degli uni contro gli altri, ma porta di soluzione, spazio in cui siano possibili il rispetto, l’interscambio e il dialogo. La domanda posta su come comportarci rispetto a un matrimonio interreligioso ci sfida riguardo a questa persistente tendenza che abbiamo alla frammentazione, a separare piuttosto che unire. E lo stesso succede per il rapporto tra nazionalità, tra etnie, tra quelli del nord e quelli del sud, tra comunità, sacerdoti e vescovi. È una sfida perché, finché non si sviluppa «una cultura dell’incontro in una pluriforme armonia», si richiede «un costante processo nel quale ogni nuova generazione si vede coinvolta. È un lavoro lento, è un lavoro arduo che esige di volersi integrare e di imparare a farlo». È il requisito necessario per la «costruzione di un popolo in pace, giustizia e fraternità», per «lo sviluppo della convivenza sociale e la costruzione di un popolo in cui le differenze si armonizzino all’interno di un progetto comune» (ibid., 220-221). Come Maria è andata fino alla casa di Elisabetta, così anche noi nella Chiesa dobbiamo imparare la strada da seguire in mezzo a nuove problematiche, cercando di non restare paralizzati da una logica che contrappone, divide, condanna. Mettetevi in cammino e cercate una risposta a queste sfide chiedendo la sicura assistenza dello Spirito Santo. È Lui il Maestro, in grado di mostrare le nuove strade da percorrere.

Ravviviamo dunque la nostra chiamata vocazionale, facciamolo in questo magnifico tempio dedicato a Maria, e che il nostro “sì” generoso magnifichi il Signore e faccia esultare lo spirito del nostro popolo in Dio nostro Salvatore (cfr Lc 1,46-47). E colmi di speranza, pace e riconciliazione il vostro Paese, il nostro amato Mozambico!

Vi chiedo, per favore, di pregare e far pregare per me.

Il Signore vi benedica e la Vergine Santissima vegli su di voi.

Grazie!

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Visita privata alla Casa “Matteo 25”


Al termine del suo incontro con la comunità ecclesiastica del Mozambico nella cattedrale di Maputo, Papa Francesco si è recato in visita privata alla “Casa Mateus 25”, una struttura che si occupa di fornire pasti, servizi igienici e sanitari ai giovani e ai bambini di strada della capitale.


Ispirata alla parte del Vangelo di Matteo dedicata all’accoglienza dei poveri e degli stranieri, l’iniziativa “Opera Matteo 25” è stata promossa oltre un anno fa dalla Nunziatura apostolica del Mozambico con la collaborazione di circa venti Congregazioni religiose. Molti i volontari che ne fanno parte e che ogni sera percorrono le strade di Maputo per offrire un pasto caldo e accoglienza ai più bisognosi.

Il Pontefice è stato accolto dal presidente del Mozambico Filipe Jacinto Nyusi all’ingresso della Casa. Nei pressi della vicina cappella, il presidente ha poi inaugurato una lapide commemorativa dell’incontro, mentre Papa Francesco ha donato alla Casa una copia esatta in gesso smaltato della “Madonna delle Lacrime” di Siracusa.

Il Papa ha poi incontrato tre suore e un sacerdote del gruppo di coordinamento dell’iniziativa e alcuni giovani assistiti dall’Opera Matteo 25 e da altre associazioni religiose che hanno accolto con sorrisi, musica e balli l’arrivo del Pontefice.





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