POPULISMI E DEMOCRAZIA
di Giannino Piana*
L’avanzare, in termini sempre più rilevanti, dei populismi in Europa (e non solo) pone seri problemi di sussistenza alle democrazie liberal-democratiche, già peraltro attraversate da crescenti fragilità dovute a una molteplicità di cause, una delle quali (forse la più rilevante) è costituita dal funzionamento distorto di un capitalismo selvaggio, che non è più in grado di tutelare il benessere della maggioranza dei cittadini. L’estendersi dello scontento per quanto sta avvenendo e che comporta il coinvolgimento di una fetta sempre più consistente di «ceto medio» soggetto a un processo di proletarizzazione, che ha subìto una forte accelerazione in seguito allo scoppio della crisi economico- finanziaria del 2008 (tuttora non risolta), non fa che accentuare la tendenza alla crescita dei partiti e movimenti che si ispirano al populismo. A destare le maggiori preoccupazioni è tuttavia soprattutto la considerazione che tali forze politiche non si accontentano di attribuire lo stato di disagio derivante dalla crisi economica o da altri fenomeni deteriori riguardanti la conduzione della «cosa pubblica», alla responsabilità della classe dirigente che gestisce oggi il potere, ma che mettono, più radicalmente, sotto processo lo stesso sistema della democrazia rappresentativa occidentale, proponendo, in alternativa, una forma di democrazia, basata sul rifiuto di ogni intermediazione, sulla diffidenza verso esperti e professionisti della politica e sull’uso della tecnologia nei processi decisionali; in una parola, una democrazia diretta e digitale.
Quale progetto?
Per comprendere il significato di tale progetto è necessario risalire alle radici stesse del populismo, il quale non è di per sé un fenomeno nuovo. Le origini risalgono infatti alla fine dell’Ottocento negli Stati Uniti; ma esso si è sviluppato attraverso fasi successive, le quali presentano connotati non sempre univoci. Le attuali versioni (perché di più versioni si tratta) – esistono infatti populismi inclusivi, con un’apertura universalistica (si pensi a Podemos in Spagna) e populismi escludenti legati a forme di nazionalismo e a rigurgiti sovranisti (emblematico è il caso della Lega di Salvini) – sono in ogni caso caratterizzate dalla presenza di elementi di novità, dovuti all’attuale stagione socioculturale, al punto che vi è chi – come Paolo Graziano (Neopopulismi. Perché sono destinati a durare, Il Mulino 2018) – non esita a parlare di «neopopulismi». Le definizioni che di questi ultimi vengono date contengono elementi insieme di convergenza e di diversificazione. Comune è l’adesione a una ideologia politica che pone al centro il popolo contrapposto alle élites – anche se diverse sono le accezioni di popolo presenti nei vari populismi: dal popolo-sovrano al popolo-classe fino al popolo-nazione –; che si serve di un’organizzazione verticistica, la quale fa capo a un leader carismatico; e che è, infine, portatrice di un progetto di cambiamento della società immediato e semplificato. Diverse sono le matrici sociologiche e culturali alle quali si fa riferimento per spiegarne la consistente incidenza. Vi è chi vede nei populismi una sorta di «religione politica », incentrata su una visione apocalittica della realtà e chi, invece, pone l’accento sul carattere rivoluzionario in essi presente, il quale consiste nella volontà di un reale ribaltamento dell’ordine (disordine) esistente e nell’impegno a far nascere una nuova società di liberi e uguali.
Le ragioni della odierna diffusione
Nonostante la superficialità (persino la rozzezza) che li qualifica, i populismi si sono propagati, nell’ultimo decennio in misura consistente in Occidente: dagli Usa di Donald Trump, considerato il portabandiera del nuovo «populismo globale», a diversi Paesi europei di antica tradizione democratica (Francia, Italia, Spagna, Germania, ecc.) fino a quelli dell’Est europeo, che hanno conquistato da poco la democrazia. Non sono certo difficili da individuare le cause di questa escalation. Accanto alla recessione economica, già ricordata, che ha prodotto (e produce) una crescita sempre più accentuata delle diseguaglianze sociali e ha dato vita a pesanti forme di destabilizzazione, vi è la perdita di credibilità della politica per la presenza in essa di fenomeni corruttivi, che hanno contrassegnato (e tuttora contrassegnano) i partiti e le istituzioni, alimentando la sfiducia nei confronti della conduzione della «cosa pubblica» in genere. A queste cause di carattere sociale si aggiungono poi (e rivestono oggi un peso sempre più determinante) ragioni (spesso pretestuose) di carattere culturale come il rischio che la presenza sempre più massiccia di culture e tradizioni religiose diverse sul proprio territorio – presenza dovuta agli sviluppi del fenomeno migratorio – oltre a costituire un grave pericolo per la sicurezza, conduca alla perdita della propria identità; o come l’avanzare di processi di omologazione, favoriti dallo sviluppo degli strumenti della comunicazione sociale – da quelli tradizionali a quelli nuovi – che creano una forte dipendenza, sottraendo alla persona la libertà di scelta, anche mediante la propagazione delle «false notizie» (le cosiddette fake news), e illudendola, nello stesso tempo, di conservare la propria autonomia di giudizio e di decisione.
Il modello dell’antipolitica
Il discredito nei confronti della politica, che – come si è detto – prende avvio dalla critica alla sua attuale gestione ma coinvolge poi la politica tout court, trova espressione in una forma di antipolitica che non si accontenta di mettere sotto processo la democrazia rappresentativa, ma si traduce nell’offerta di una alternativa ad essa – la democrazia diretta – che si attua, a sua volta nella formulazione di proposte diverse, che vanno dalla «lottocrazia», per la quale la rappresentanza politica anziché essere designata mediante il ricorso a libere elezioni, dovrebbe essere scelta attraverso una selezione casuale, ricorrendo cioè al sorteggio, come avviene oggi per le giurie dei tribunali americani; alla introduzione del cosiddetto «voto quadratico», un metodo innovativo di espressione della preferenza, che prevede la sostituzione del principio «una testa un voto» con l’assegnazione ad ogni elettore di un pacchetto di voti, che egli potrà spendere a seconda dei suoi interessi, assegnando poi a un meccanismo matematico il compito, nel caso si presentino eccessivi addensamenti, di selezionare le proposte; fino alla adesione alla cosiddetta «democrazia recitativa» – a metterne a fuoco le coordinate è Emilio Gentile nel suo recente Chi è fascista (Laterza 2019) – consistente in un progetto (utopistico) di società in cui tutti cooperano per rimuovere ogni forma di sfruttamento e di discriminazione. Al di là dei differenti modelli proposti, comune è la convinzione che, grazie all’impiego delle nuove tecnologie della comunicazione, divenga possibile l’esercizio diretto del potere da parte dei cittadini senza bisogno di intermediari che li rappresentino. E che questa opportunità metta fine a una situazione di stallo, che si è a lungo perpetuata con gli esiti negativi ricordati, e apra una nuova stagione politica nella quale a governare è davvero il popolo chiamato a decidere, di volta in volta, i provvedimenti da assumere per dare piena possibilità di espressione alle istanze che si presentano con una urgenza prioritaria ed esigono per questo una pronta risposta.
I rischi per la democrazia
Che, in queste circostanze, la democrazia liberale sia in pericolo è un dato di fatto evidente. Il rischio maggiore lo corrono anzitutto i Paesi di Visegrad, dove è in atto un processo di radicale disintegrazione del sistema democratico, peraltro già estremamente fragile per le sue origini recenti. La «democrazia illiberale» proposta da Orbàn è tutt’altro che democrazia. La violazione dei diritti politici dei cittadini, l’assoggettamento del sistema dell’informazione, la riduzione degli spazi di azione per l’opposizione e il controllo del sistema giudiziario sono altrettanti segnali allarmanti che denunciano l’assenza di condizioni minime per il corretto funzionamento della democrazia. D’altra parte, nonostante la diversa situazione di partenza delle democrazie occidentali, che si sono consolidate nel tempo, non sono del tutto assenti anche in questo caso rischi consistenti per le istituzioni democratiche. La superficialità e il velleitarismo di proposte come quelle del Movimento Cinque stelle – è sufficiente ricordare qui quanto il ricorso alla consultazione via web per valutare e decidere le proposte da sottoscrivere in campo legislativo e politico abbia di fatto coinvolto un numero irrisorio di persone (le consultazioni finora messe in atto non hanno mai raggiunto le centomila presenze) – e l’autoritarismo sovranista di Salvini, che, al di là di prese di posizione demagogiche – al tema delle migrazioni da lui cavalcato facendo leva sulle paure (e concorrendo ad incrementarne la percezione) non è stata offerta di fatto alcuna soluzione – non possono che avere effetti destabilizzanti sulle istituzioni democratiche, in quanto introducono fattori disgreganti che corrodono il tessuto sociale e incrementano le diseguaglianze.
Le provocazioni da accogliere
Non tutto ciò che viene dal diffondersi dei populismi va tuttavia considerato negativo. La ricerca di nuove vie per l’attuazione della democrazia, la quale, a causa soprattutto della crisi dei valori, non è in grado di soddisfare alcune fondamentali esigenze dei cittadini, costituisce una provocazione positiva che merita di essere accolta. Due sono – ci pare – le istanze più importanti con le quali occorre, a tale proposito, misurarsi. La prima – di merito – riguarda la questione delle diseguaglianze. La situazione è, al riguardo, insostenibile: il nostro Paese è tra quelli che presentano uno dei tassi più alti di sperequazione sociale. La democrazia non può accontentarsi di un’eguaglianza formale, consistente nell’eguale trattamento riservato a tutti i cittadini dalla legge; deve dar vita a un’eguaglianza sostanziale, la quale reclama – come ci ricorda la nostra Carta costituzionale all’art. 3 – la creazione di condizioni economico- sociali che rimuovano gli ostacoli, che impediscono a molti di esercitare in senso pieno la cittadinanza. Si può – giustamente – reagire di fronte ad alcune forme di massimalismo dei populismi, ma si deve riconoscere la assoluta necessità di un minimo comune denominatore per tutti, condizione indispensabile per l’affermazione della dignità di ciascuno, la quale non può essere considerata un valore negoziabile, in quanto segna un limite invalicabile al relativismo dei valori. La seconda istanza – di metodo – chiama in causa le modalità di esercizio della democrazia rappresentativa, la capacità che essa ha di aggiornare e di estendere gli strumenti di democrazia diretta, in parte già presenti negli statuti che si è data e che concorrono ad ampliare la partecipazione attiva dei cittadini: si pensi all’iniziativa legislativa popolare e alle varie forme di referendum. Ma reclama soprattutto l’adesione a una forma di «democrazia deliberativa» – interessante è, al riguardo, il volume di Antonio Floridia dal titolo La democrazia deliberativa: teorie, processi e sistemi (Carocci 2013) – la quale non comporta la diretta decisione – deliberare non significa decidere – ma implica la preparazione del processo decisionale attraverso il ricorso ad assemblee di cittadini ai quali sono fornite tutte le informazioni necessarie per la comprensione del problema e per la ricerca della sua soluzione. È importante ricordare, in definitiva, che l’azione di contrasto a tutte le forme di populismo non può essere condotta in astratto, facendo leva su motivazioni di carattere esclusivamente ideologico. Ha invece bisogno, per diventare efficace, che si accolgano le provocazioni positive che da ogni parte (non esclusi i populismi) provengono, e che si sappiano dare ad esse risposte convincenti e responsabili.
(Fonte: “Rocca” n. 16/17 del 15 agosto-1 settembre 2019)
* Note biografiche
(1939) è un presbitero, scrittore, teologo moralista italiano.
Insegna Etica Cristiana presso la Libera Università di Urbino, Etica ed Economia presso l'Università di Torino.
È stato presidente dell'Associazione Italiana dei Teologi Moralisti.
Fa parte delle redazioni delle riviste Hermeneutica, Credere oggi, Rivista di teologia Morale e Servitium; collabora al mensile Jesus con la rubrica Morale e coscienza, e al quindicinale Rocca con la rubrica Etica Scienza Società.
Ha diretto:
la sezione di Teologia morale del Dizionario Teologico Interdisciplinare, Marietti 1977
il Nuovo Dizionario di Teologia Morale, Edizioni Paoline 1990
la sezione morale del Dizionario Teologico Enciclopedico, Piemme 1993
il Corso di Morale Vita nuova in Cristo, 5 vol., Queriniana, Brescia 1983