VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO
IN MOZAMBICO, MADAGASCAR E MAURIZIO
(4 - 10 SETTEMBRE 2019)
IN MOZAMBICO, MADAGASCAR E MAURIZIO
(4 - 10 SETTEMBRE 2019)
CONFERENZA STAMPA DEL SANTO PADRE
DURANTE IL VOLO DI RITORNO
DURANTE IL VOLO DI RITORNO
Volo Papale
Martedì, 10 settembre 2019
Martedì, 10 settembre 2019
Come di consueto Papa Francesco durante il volo di ritorno dal suo viaggio in Mozambico, Madagascar e Maurizio risponde alle domande dei giornalisti, oltre un'ora di conferenza stampa e una decina di domande, con un piccolo intervallo, quando i collaboratori lo avvisano che è in arrivo una turbolenza. Il Papa si siede tranquillamente insieme ai giornalisti e aspetta: "Così non dite che è una scusa per non continuare", scherza. Qualche minuto dopo, passata la turbolenza, si riprende.
Riportiamo di seguito testo e video integrali.
MATTEO BRUNI:
Buongiorno! Buongiorno, Santo Padre. In questi giorni abbiamo potuto incontrare i popoli di queste terre africane e dell’oceano indiano. Sono popoli con tanti giovani, con tanti ragazzi, bambini, popoli pieni di entusiasmo e di speranza, anche proprio perché giovani. Abbiamo potuto anche vedere tante ferite che Lei ha toccato con mano e nei suoi discorsi, e con i giornalisti abbiamo visto tanti segni di risurrezione, di riconciliazione e di pace. I giornalisti Suoi compagni di viaggio hanno seguito intensamente gli eventi di questi giorni e hanno portato al mondo le storie, i volti e anche le tematiche che hanno incontrato, contribuendo a mettere il Mozambico, l’Africa, il Madagascar e Mauritius al centro dell’interesse internazionale. Io ringrazio i giornalisti per il lavoro fatto con passione e fatica e a loro passerei la parola per alcune domande che desiderano rivolgerLe, anzitutto i giornalisti che provengono dai Paesi dove siamo stati.
PAPA FRANCESCO:
Prima di tutto voglio ringraziare per la compagnia, grazie!
MATTEO BRUNI
Il primo giornalista che fa una domanda è Julio Mateus Manjate di “Noticias”, del Mozambico.
JULIO MATEUS MANJATE (Noticias, Mozambico)
Grazie, Santo Padre. Anzitutto ringrazio per questa opportunità di parlare a nome dei colleghi della stampa del Mozambico che accompagnano il Santo Padre. Nel passaggio in Mozambico Lei si è incontrato con il Presidente della Repubblica e con i Presidenti dei due partiti presenti in Parlamento. Mi piacerebbe sapere qual è, dopo questi colloqui, la sua aspettativa per il processo di pace, e quale messaggio vorrebbe lasciare al Mozambico. E due brevi commenti, uno sulla questione della xenofobia, che si sta verificando in Africa, e anche sulla questione della gioventù, l’impatto delle reti sociali nell’educazione dei giovani.
PAPA FRANCESCO:
Il primo punto, sul processo di pace. Oggi si identifica il Mozambico con un lungo processo di pace che ha avuto i suoi alti e bassi, ma alla fine sono arrivati a quell’abbraccio storico. Io mi auguro che questo vada avanti e prego per questo. Invito tutti a fare lo sforzo affinché questo processo di pace vada avanti. Perché tutto si perde con la guerra, tutto si guadagna con la pace, ha detto un Papa prima di me. Questo motto è chiaro, non va dimenticato. È un processo di pace lungo perché ha avuto una prima fase, poi è caduto, poi un’altra fase… E lo sforzo dei capi dei partiti avversari, per non dire nemici, di andare a incontrarsi tra loro è stato anche uno sforzo pericoloso, alcuni rischiavano la vita… Ma alla fine siamo arrivati. Vorrei ringraziare tutte le persone che hanno aiutato in questo processo di pace. Dall’inizio, in un caffè di Roma: c’erano alcune persone che parlavano, c’era un sacerdote della Comunità di Sant’Egidio, che sarà fatto cardinale il prossimo 5 ottobre… È cominciato lì... E poi, con l’aiuto di tanta gente, anche della Comunità di Sant’Egidio, sono arrivati a questo risultato. Noi non dobbiamo essere trionfalistici in queste cose. Il trionfo è la pace. Noi non abbiamo il diritto di essere trionfalistici, perché la pace è ancora fragile nel tuo Paese, come nel mondo è fragile, e la si deve trattare come si trattano le cose appena nate, come i bambini, con molta, molta tenerezza, con molta delicatezza, con molto perdono, con molta pazienza, per farla crescere così che diventi robusta. Ma è il trionfo del Paese: la pace è la vittoria del Paese, dobbiamo riconoscere questo.
E questo vale per tutti i Paesi, per tutti i Paesi che si distruggono con la guerra. Le guerre distruggono, fanno perdere tutto. Io mi dilungo un po’ su questo tema della pace perché mi sta a cuore. Quando c’è stata la celebrazione, alcuni mesi fa, dello sbarco in Normandia, sì, è vero, c’erano i capi dei governi a fare memoria di quello che era l’inizio della fine di una guerra crudele, e anche di una dittatura disumana e crudele come il nazismo e il fascismo… Ma su quella spiaggia sono rimasti 46mila sodati! Il prezzo della guerra! Vi confesso che quando sono andato a Redipuglia per il centenario della Prima Guerra mondiale a vedere quel memoriale, ho pianto. Per favore, mai più la guerra! Quando sono andato ad Anzio a celebrare il giorno dei defunti, nel cuore sentivo così… Ma dobbiamo lavorare per creare questa coscienza, che le guerre non risolvono niente, anzi fanno guadagnare le persone che non vogliono il bene dell’umanità. Scusatemi di questa appendice, ma dovevo dirlo, davanti a un processo di pace per il quale io prego, e farò di tutto perché vada avanti e vi auguro che cresca forte.
Il problema della gioventù. L’Africa è un continente giovane, ha vita giovane. Se noi facciamo il paragone con l’Europa, ripeterò quello che ho detto a Strasburgo: la madre Europa è quasi diventata la “nonna Europa”, è invecchiata, stiamo vivendo un inverno demografico gravissimo in Europa. Ho letto che – non so in quale Paese, ma è una statistica ufficiale del governo di quel Paese – nell’anno 2050, in quel Paese, ci saranno più pensionati che gente che lavora. Questo è tragico. Qual è l’origine di questo invecchiamento dell’Europa? Penso – è un’opinione personale – che alla radice c’è il benessere. Attaccarsi al benessere: “Sì, ma stiamo bene, io non faccio figli perché devo comprare la villa, devo andare a fare turismo, questo, quell’altro… Sto bene così, un figlio è un rischio, non si sa mai…”. Benessere e tranquillità, ma un benessere che ti porta a invecchiare. Invece l’Africa è piena di vita. Ho trovato in Africa un gesto che avevo trovato nelle Filippine e a Cartagena in Colombia. La gente con i bambini in alto, ti facevano vedere i bambini: “Questo è il mio tesoro, questa è la mia vittoria”. L’orgoglio. È il tesoro dei poveri, il bambino. Ma è il tesoro di una patria, di un Paese. Lo stesso gesto l’ho visto in Europa orientale, a Iasci, soprattutto quella nonna che faceva vedere il bambino: “Questo è il mio trionfo…”. Voi avete la sfida di educare questi giovani e di fare leggi per questi giovani. L’educazione in questo momento è prioritaria nel tuo Paese. È prioritario farlo crescere con leggi sull’educazione. Il Primo Ministro di Mauritius mi aveva parlato di questo e diceva che lui ha in mente la sfida di far crescere il sistema educativo gratuito per tutti. La gratuità del sistema educativo: è importante, perché ci sono centri di educazione di alto livello, ma a pagamento. Centri educativi, ce ne sono in tutti i Paesi, ma vanno moltiplicati, perché l’educazione arrivi a tutti. Le leggi sull’educazione. Salute e educazione sono elementi-chiave in questo momento in quei Paesi.
Il terzo punto, la xenofobia. Ho letto sui giornali di questo problema della xenofobia, ma non è un problema solo dell’Africa. È un problema, è una malattia umana, come il morbillo… È una malattia che viene, entra in un Paese, entra in un continente… E mettiamo muri; e i muri lasciano soli quelli che li costruiscono. Sì, lasciano fuori tanta gente, ma quello che rimangano dentro i muri rimarranno soli e, alla fine della storia, sconfitti da invasioni potenti. La xenofobia è una malattia, una malattia che si dà delle giustificazioni: la purezza della razza, per esempio, per menzionare una xenofobia del secolo scorso. E le xenofobie a volte cavalcano sui cosiddetti populismi politici. Ho detto la settimana scorsa, o l’altra, che a volte sento fare dei discorsi che somigliano a quelli di Hitler nel ’34. Si vede che c’è un ritornello in Europa… Ma anche voi in Africa avete un altro problema culturale che dovete risolvere. Ricordo che ne ho parlato in Kenya: il tribalismo. Lì ci vuole un lavoro di educazione, di avvicinamento fra le diverse tribù per fare una nazione. Abbiamo commemorato il 25° della tragedia del Rwanda poco tempo fa: è un effetto del tribalismo. Ricordo in Kenya, nello stadio, quando ho chiesto a tutti di alzarsi e darsi la mano e dire “no al tribalismo, no al tribalismo!”. Dobbiamo dire no. Anche questa è una chiusura, e anche una xenofobia, una xenofobia domestica ma è pure una xenofobia. Si deve lottare contro questo: sia la xenofobia di un Paese con l’altro, sia la xenofobia interna, che nel caso di alcuni luoghi dell’Africa, col tribalismo, ci portano a tragedie come quella del Rwanda, per esempio.
MATTEO BRUNI:
La seconda domanda ci viene dalla dr.ssa Ratovoarivelo del Madagascar.
MARIE FRÉDELINE RATOVOARIVELO (Radio Don Bosco, Madagascar)
Santità, Lei ha parlato del futuro dei giovani, durante la sua visita apostolica. Penso che la fondazione di una famiglia è molto importante per il futuro. Attualmente in Madagascar molti giovani vivono in situazioni di famiglia molto complesse, a causa della povertà. Come può la Chiesa accompagnare i giovani, dal momento che questi pensano che i suoi insegnamenti sono superati rispetto alla crisi familiare e alla rivoluzione sessuale di oggi? La ringrazio Santo Padre.
PAPA FRANCESCO:
La famiglia certamente è un elemento-chiave in questo, nell’educazione dei figli. È toccante il modo di esprimersi dei giovani, nel Madagascar lo abbiamo visto, e lo abbiamo visto anche a Mauritius, e anche in Mozambico nell’incontro interreligioso dei giovani per la pace. Dare dei valori ai giovani, farli crescere. In Madagascar il problema della famiglia è legato al problema della povertà, alla mancanza di lavoro e anche a volte allo sfruttamento del lavoro da parte di tante imprese. Per esempio, nella cava di granito [ad Antananarivo], quelli che lavorano guadagnano un dollaro e mezzo al giorno. E le leggi sul lavoro, le leggi che proteggono la famiglia, questo è fondamentale. E anche i valori familiari, ci sono, ci sono, ma a volte poi vengono distrutti dalla povertà, non i valori ma il poterli trasmettere e portare avanti l’educazione dei giovani, farli crescere. In Madagascar abbiamo visto l’opera di Akamasoa: il lavoro con i bambini, perché i bambini possano vivere in una famiglia, che non è quella naturale, è vero, ma è l’unica possibilità.
Ieri a Mauritius, dopo la Messa, ho trovato Mons. Rueda con un poliziotto, alto, grande, che aveva in braccio una bambina, aveva due anni più o meno. Si era persa e piangeva perché non trovavano i genitori. La polizia ha fatto l’annuncio perché venissero, e intanto la accarezzavano. E lì ho visto il dramma di tanti bambini e giovani che perdono il legame familiare benché vivano nella famiglia, ma in un momento lo perdono… In questo caso solo per un incidente. E anche il ruolo dello Stato per sostenerli e farli crescere. Lo Stato deve prendersi cura della famiglia, dei giovani: è un dovere dello Stato, un dovere farli crescere. Poi, ripeto, per una famiglia avere un figlio è un tesoro. E voi avete questa coscienza, avete la coscienza del tesoro. Ma adesso è necessario che tutta la società abbia la coscienza di far crescere questo tesoro, per far crescere il Paese, far crescere la patria, far crescere i valori che daranno sovranità alla patria. Non so se ho risposto più o meno. Una cosa che mi ha colpito dei bambini, in tutti e tre i Paesi, è che salutavano. C’erano anche bambini piccolini che salutavano: partecipavano alla gioia. Sulla gioia vorrei parlare dopo. Grazie.
MATTEO BRUNI:
La terza domanda, Santità, viene dal Sig. Mootoosamy, delle Mauritus.
JEAN-LUC MOOTOOSAMY (Radio One, Mauritius):
Il Primo Ministro delle Mauritius L’ha ringraziata per la Sua preoccupazione per la sofferenza dei nostri concittadini che sono stati costretti ad abbandonare il proprio arcipelago dal Regno Unito dopo l’illecita separazione di questa parte del nostro territorio prima dell’indipendenza. Oggi sull’isola Diego Garcia c’è una base militare americana. Santo Padre, i chagossiani in esilio forzato da cinquant’anni vogliono tornare alla loro terra e le rispettive amministrazioni di Stati Uniti e Regno Unito non permettono che questo accada, nonostante ci sia una risoluzione delle Nazioni Unite del maggio scorso. Come può Lei sostenere la volontà dei chagossiani e aiutare il popolo di Chagos a tornare a casa?
PAPA FRANCESCO:
Vorrei ribadire la Dottrina della Chiesa su questo. Le organizzazioni internazionali, quando noi le riconosciamo e diamo ad esse la capacità di giudicare a livello internazionale – pensiamo al Tribunale Internazionale dell’Aja o alle Nazioni Unite –, quando si pronunciano, se siamo un’unica umanità, dobbiamo obbedire. È vero che non sempre le cose che sembrano giuste per tutta l’umanità saranno giuste per le nostre tasche, ma si deve obbedire alle istituzioni internazionali. Per questo sono state create le Nazioni Unite, sono stati creati i tribunali internazionali, perché quando c’è qualche conflitto interno o fra i Paesi si vada lì per risolverlo come fratelli, come Paesi civili.
Poi c’è un altro fenomeno che, non so, lo dico chiaramente, non so se si possa riferire a questo caso. Adesso il caso particolare lo lascio da parte. Ho detto che mi sembra giusto fare riferimento alle organizzazioni internazionali. Ma c’è un fenomeno. Quando avviene la liberazione di un popolo e lo Stato dominante vede che se ne deve andare – in Africa ci sono state tante liberazioni dalla Francia, dalla Gran Bretagna, dal Belgio, dall’Italia…, hanno dovuto andarsene –, alcune sono maturate bene, ma in tutte c’è sempre la tentazione di andarsene “con qualcosa in tasca”. Sì, io concedo la liberazione a questo popolo ma qualche “briciola” la porto con me… Per esempio, do la liberazione al Paese ma “dal pavimento in su”: il sottosuolo rimane mio. È un esempio, non so se è vero, ma per fare un esempio. C’è sempre questa tentazione. Credo che le organizzazioni internazionali debbano attuare anche un processo di accompagnamento, riconoscendo alle potenze dominanti quello che hanno fatto per quel Paese e riconoscendo la buona volontà di andarsene e aiutandole affinché se ne vadano totalmente, con libertà, con fratellanza. È un lavoro culturale lento dell’umanità e in questo le istituzioni internazionali ci aiutano tanto, sempre, e dobbiamo andare avanti rafforzando le istituzioni internazionali: le Nazioni Unite, che riprendano quello spirito…; l’Unione Europa, che sia più forte, non nel senso del dominio, ma nel senso di giustizia, fratellanza, unità per tutti. Questa credo sia una delle cose importanti.
Ma c’è un’altra cosa che vorrei dire approfittando del Suo intervento. Oggi non ci sono colonizzazioni geografiche – almeno non tante… –, ma ci sono colonizzazioni ideologiche, che vogliono entrare nella cultura dei popoli e cambiare quella cultura e omogeneizzare l’umanità. È l’immagine della globalizzazione come una sfera: tutti uguali, ogni punto equidistante dal centro. Invece la vera globalizzazione non è una sfera, è un poliedro dove ogni popolo, ogni nazione conserva la propria identità ma si unisce a tutta l’umanità. Invece la colonizzazione ideologica cerca di cancellare l’identità degli altri per renderli uguali; e vengono con proposte ideologiche che vanno contro la natura di quel popolo, contro la storia di quel popolo, contro i valori di quel popolo. Dobbiamo rispettare l’identità dei popoli. Questa è una premessa da difendere sempre. Va rispettata l’identità dei popoli, e così cacciamo via tutte le colonizzazioni. Grazie.
Sì, prima di dare la parola a EFE – che è la privilegiata di questo viaggio: è “vecchia”, ha 80 anni! – vorrei dire qualcosa di più sul viaggio, qualcosa che mi ha colpito molto. Del tuo Paese [Mauritius] mi ha colpito tanto la capacità di unità interreligiosa, di dialogo interreligioso. Non si cancella la differenza delle religioni ma si sottolinea che tutti siamo fratelli, che tutti dobbiamo parlare. E questo è un segnale di maturità del tuo Paese. Parlando con il Primo Ministro ieri sono rimasto stupito di come loro hanno elaborato questa realtà e la vivono come necessità di convivenza. C’è anche una commissione inter-cultuale che si raduna… La prima cosa che ho trovato ieri entrando in episcopio – un aneddoto – è stato un mazzo di fiori bellissimo. Chi l’ha inviato? Il Grande Imam. Sì, fratelli: la fratellanza umana che è alla base e rispetta tutte le credenze. Il rispetto religioso è importante, per questo ai missionari io dico: “Non fare proselitismo”. Il proselitismo vale per la politica, per il mondo dello sport – la mia squadra, la tua… –, vale per tutto questo ma non per la fede. “Ma cosa significa per Lei, Papa, evangelizzare?”. C’è una frase di San Francesco che mi ha illuminato tanto. Francesco d’Assisi diceva ai suoi frati: “Portate il Vangelo, se fosse necessario anche con le parole”. Cioè evangelizzare è quello che noi leggiamo nel libro degli Atti degli Apostoli: testimonianza. E quella testimonianza provoca la domanda: “Ma tu perché vivi così, perché fai questo?”. E allora spiego: “Per il Vangelo”. L’annuncio viene dopo la testimonianza. Prima vivi come cristiano e, se ti domandano, fai l’annuncio. La testimonianza è il primo passo, e il protagonista dell’evangelizzazione non è il missionario, è lo Spirito Santo, che porta i cristiani e i missionari a dare testimonianza. Poi verranno le domande o non verranno, ma la testimonianza della vita, questo è il primo passo. È importante per evitare il proselitismo. Quando voi vedete proposte religiose che vanno per la strada del proselitismo, non sono cristiane. Cercano proseliti, non adoratori di Dio in verità, a partire dalla testimonianza. Colgo l’occasione di dire questo per la vostra esperienza interreligiosa che è tanto bella. E il Primo Ministro mi ha detto anche che quando uno chiede un aiuto, si dà lo stesso a tutti e nessuno si offende, perché si sentono fratelli. E questo fa l’unità del Paese. È molto, molto importante.
Negli incontri poi non c’erano solo cattolici, c’erano cristiani di altre confessioni e c’erano musulmani, indù ma tutti erano fratelli. Questo l’ho visto anche in Madagascar abbastanza e anche [in Mozambico] nell’incontro interreligioso dei giovani per la pace, dove i giovani di diverse religioni hanno voluto esprimere come loro vivono il desiderio per la pace. Pace, fraternità, convivenza interreligiosa, niente proselitismo. Sono cose che dobbiamo imparare per la convivenza. Questa è una cosa che devo dire.
Poi, un’altra cosa che mi ha colpito – e faccio riferimento a questo incontro nel tuo Paese e poi nei tre Paesi, ma ne prendo uno, il Madagascar, perché siamo partiti da lì –: il popolo. Nelle strade c’era il popolo, il popolo autoconvocato. Nella Messa allo stadio sotto la pioggia c’era il popolo, e danzava sotto la pioggia, era felice… Felice, poi riprenderò questo. E anche nella veglia notturna [dei giovani in Madagascar] e nella Messa – che dicono abbia sorpassato il milione (non so, le statistiche ufficiali dicono questo, io vado un po’ sotto, diciamo 800 mila), ma il numero non interessa, interessa il popolo, la gente che è andata a piedi dal pomeriggio prima, è stata alla veglia, ha dormito lì. Ho pensato a Rio de Janeiro nel 2013, quando dormivano sulla spiaggia. Era il popolo che voleva stare col Papa. Io mi sono sentito umile e piccolissimo davanti a questa grandiosità della “sovranità” popolare. E qual è il segno che un gruppo di gente è popolo? La gioia. C’erano poveri, c’era gente che non aveva mangiato quel pomeriggio per essere lì, ma erano gioiosi. Invece quando le persone o i gruppi si allontanano dal quel senso popolare della gioia, perdono la gioia. È uno dei primi segnali, la tristezza delle persone sole, la tristezza di coloro che hanno dimenticato le loro radici culturali. Avere coscienza di essere un popolo è avere coscienza di avere un’identità, di avere un modo di capire la realtà, e questo accomuna la gente. Ma il segno che tu sei nel popolo e non in una élite, è la gioia, la gioia comune. Questo ho voluto sottolinearlo. E per questo i bambini salutavano così, perché i genitori contagiavano la gioia.
Grazie! Questo è quello che volevo dire sul viaggio, poi se mi viene in mente qualcos’altro lo dirò. Adesso, la “privilegiata”!
CRISTINA CABREJAS GILES (dell’agenzia spagnola EFE, che celebra ottant’anni di fondazione)
Grazie, Santo Padre, per l’opportunità. Ho due domande. Una privilegiata e una sul tema del viaggio. Se vuole Le faccio quella privilegiata, ci togliamo il dente, chiedo scusa ai colleghi, vorrei soltanto chiedere se mi può rispondere in spagnolo, dopo traduco io, non c’è problema. [in spagnolo] Prima di tutto, diamo per assodato che uno dei suoi progetti per il futuro è venire in Spagna, vediamo se sarà possibile, speriamo! E la domanda che voglio farle: per questi ottant’anni di EFE abbiamo interpellato diverse personalità, leader mondiali, a proposito dell’informazione e del giornalismo, e voglio chiedere a Lei: come crede che sarà l’informazione del futuro?
PAPA FRANCESCO:
Avrei bisogno della palla di cristallo!... Ci andrò in Spagna, se vivo, ma la priorità dei viaggi in Europa è per i Paesi piccoli, poi i più grandi.
Non so come sarà la comunicazione del futuro. Penso a com’era, per esempio, la comunicazione quando ero ragazzo, ancora senza TV, con la radio, col giornale, anche col giornale clandestino che era perseguitato dal governo di turno, si vendeva di notte con i volontari…; e anche comunicazione orale. Se facciamo il paragone con questa, era un’informazione precaria, e questa di oggi sarà forse precaria rispetto a quella del futuro. Ciò che rimane come costante della comunicazione è la capacità di trasmettere un fatto, e di distinguerlo dal racconto, dal riportato. Una delle cose che danneggia la comunicazione, del passato, del presente e del futuro è ciò che viene riportato. C’è uno studio molto bello, uscito tre anni fa, di Simone Paganini, uno studioso dell’Università di Aachen (Germania) e parla del movimento della comunicazione tra lo scrittore, lo scritto e il lettore. Sempre la comunicazione rischia di passare dal fatto al riportato e questo rovina la comunicazione. È importante che resti il fatto e sempre avvicinarsi al fatto. Anche nella Curia lo vedo: c’è un fatto e poi ognuno lo addobba mettendoci del suo, senza cattiva intenzione, questa è la dinamica. Dunque l’ascesi del comunicatore è sempre di tornare al fatto, riportare il fatto, e poi dire: “la mia interpretazione è questa, mi hanno detto questo”, distinguendo il fatto da ciò che viene riportato. Tempo fa mi hanno raccontato la storia di Cappuccetto Rosso, ma sulla base di ciò che veniva riportato, e finiva con Cappuccetto Rosso e la nonna che mettevano il lupo in pentola e lo mangiavano! Il racconto cambiava le cose. Qualunque sia il mezzo di comunicazione, la garanzia è la fedeltà. “Si dice che” si può usare? Sì, si può usare nella comunicazione ma stando sempre all’erta per constatare l’obiettività del “si dice che”. È uno dei valori che bisogna perseguire nella comunicazione.
In secondo luogo, la comunicazione deve essere umana, e dicendo umana intendo costruttiva, cioè deve far crescere l’altro. Una comunicazione non può essere usata come uno strumento di guerra, perché è anti-umana, distrugge. Poco fa ho passato a padre Rueda un articolo che ho trovato in una rivista, intitolato: “Le gocce di arsenico della lingua”. La comunicazione dev’essere al servizio della costruzione, non della distruzione. E quando la comunicazione è al servizio della distruzione? Quando difende progetti non umani. Pensiamo alla propaganda delle dittature del secolo passato, erano dittature che sapevano comunicare bene, ma fomentavano la guerra, le divisioni e la distruzione. Non so che cosa dire tecnicamente perché non sono ferrato nella materia. Ho voluto sottolineare dei valori ai quali la comunicazione, con qualsiasi mezzo, deve mantenersi sempre coerente.
CRISTINA CABREJAS GILES (seconda domanda)
Ritorniamo al viaggio. Uno dei temi di questo viaggio è stata la protezione dell’ambiente. Ne ha parlato in tutti i discorsi, ha parlato della protezione degli alberi, degli incendi, della deforestazione... In questo momento sta accadendo in Amazzonia. Lei pensa che i governi di queste aree stiano facendo tutto il possibile per proteggere questo polmone del mondo?
PAPA FRANCESCO:
Ritorno sull’Africa. Questo l’ho detto in un altro viaggio. C’è nell’inconscio collettivo un motto: l’Africa va sfruttata. È una cosa inconscia. Noi non pensiamo mai: l’Europa va sfruttata, no. L’Africa va sfruttata. E noi dobbiamo liberare l’umanità da questo inconscio collettivo. Il punto più forte dello sfruttamento, non solo in Africa ma nel mondo, è l’ambiente, la deforestazione, la distruzione della biodiversità. Un paio di mesi fa, ho ricevuto i cappellani della gente di mare e nell’udienza c’erano sette ragazzi pescatori che pescavano con una barca che non era più lunga di questo aereo. Pescavano con mezzi meccanici come si usa adesso, un po’ avventurieri. Mi hanno detto questo: da alcuni mesi fino ad oggi abbiamo preso 6 tonnellate di plastica. (In Vaticano abbiamo proibito la plastica, stiamo facendo questo lavoro). 6 tonnellate di plastica! Questa è una realtà, soltanto dei mari… L’intenzione di preghiera del Papa di questo mese è proprio la protezione degli oceani, che ci danno anche l’ossigeno che respiriamo. Poi ci sono i grandi “polmoni” dell’umanità, uno in Africa centrale, l’altro in Brasile, tutta la zona panamazzonica; e poi ce n’è un altro, non ricordo dove… Ci sono anche piccoli polmoni dello stesso genere. Difendere l’ecologia, la biodiversità, che è la nostra vita, difendere l’ossigeno. A me fa sperare che la lotta più grande per la biodiversità, per la difesa dell’ambiente, la portano avanti i giovani. Hanno una grande coscienza, perché loro dicono: il futuro è nostro; voi, col vostro, fate quello che volete, ma non col nostro! Incominciano a ragionare un po’ di questo. Credo che essere arrivati all’accordo di Parigi è stato un passo avanti buono. Poi l’ultimo di Marrakech… Sono incontri che aiutano a prendere coscienza. Ma l’anno scorso, d’estate, quando ho visto quella foto della nave che navigava al Polo Nord come se niente fosse, ho provato angoscia. E poco tempo fa, alcuni mesi fa abbiamo visto tutti la fotografia dell’atto funebre che hanno fatto, credo in Groenlandia, su quel ghiacciaio che non c’era più, hanno fatto un atto funebre simbolico per attirare l’attenzione. Questo sta avvenendo in fretta, dobbiamo prendere coscienza, cominciando dalle cose piccole. Ma la Sua domanda era: i governanti stanno facendo tutto il possibile? Alcuni di più, alcuni di meno. Qui c’è una parola che devo dire, che sta alla base dello sfruttamento ambientale… (Sono rimasto commosso dall’articolo sul “Messaggero” del 4 settembre, il giorno in cui siamo partiti, dove Franca Giansoldati non ha risparmiato parole, ha parlato di manovre distruttive, di rapacità… Ma questo non solo in Africa ma anche nelle nostre città, nelle nostre civiltà)… La parola brutta, brutta è “corruzione”. Io ho bisogno di fare questo affare, ma per questo devo deforestare, e ho bisogno del permesso del governo, del governo provinciale, nazionale, non so, e vado dal responsabile e la domanda – ripeto letteralmente ciò che mi ha detto un imprenditore spagnolo – la domanda che ci sentiamo fare quando vogliamo che ci approvino un progetto è: “Per me quanto?”, sfacciatamente. Questo succede in Africa, in America Latina e anche in Europa. Dappertutto, quando si prende la responsabilità socio-politica come un guadagno personale, lì si sfruttano valori, si sfrutta la natura, la gente. Pensiamo: “l’Africa va sfruttata”. Ma pensiamo a tanti operai che sono sfruttati nelle nostre società: il caporalato non l’hanno inventato gli africani, l’abbiamo in Europa. La domestica pagata un terzo di quello che si deve, non l’hanno inventato gli africani; le donne ingannate e sfruttate per fare la prostituzione nelle nostre città, non l’hanno inventato gli africani. Anche da noi c’è questo sfruttamento, non solo ambientale, anche umano. E questo è per corruzione. Quando la corruzione entra nel cuore, prepariamoci, perché avviene di tutto.
MATTEO BRUNI:
La prossima domanda viene da Jason Horowitz del New York Times.
JASON DREW HOROWITZ (The New York Times, Stati Uniti)
Buongiorno, Santo Padre. Nel volo verso Maputo Lei ha riconosciuto di essere sotto attacco di un settore della Chiesa americana. Ci sono forti critiche da parte di alcuni vescovi e cardinali, ci sono tv cattoliche e siti web americani molto critici, e alcuni dei Suoi alleati più stretti hanno parlato persino di un complotto contro di Lei, alcuni dei suoi alleati nella curia italiana. C’è qualcosa che questi critici non capiscono del Suo pontificato? C’è qualcosa che Lei ha imparato dalle critiche negli Stati Uniti? Un’altra cosa, Lei ha paura di uno scisma nella Chiesa americana? E se sì, c’è qualcosa che Lei potrebbe fare - un dialogo – per aiutare, per evitarlo?
PAPA FRANCESCO:
Prima di tutto, le critiche aiutano sempre, sempre. Quando uno riceve una critica, subito deve fare l’autocritica e dire: è vero o non vero?, fino a che punto? Dalle critiche io traggo sempre vantaggi, sempre. A volte ti fanno arrabbiare, ma i vantaggi ci sono. Nel viaggio di andata a Maputo è venuto… - sei stato tu a darmi il libro? - qualcuno di voi mi ha dato quel libro in francese… “La Chiesa americana attacca il Papa”, no, “Il Papa sotto l’attacco degli americani” [qualcuno dice: “Come gli americani vogliono cambiare il Papa”]… Ecco questo è il libro. Me ne avete dato una copia. Sapevo di quel libro, ma non l’avevo letto. Le critiche non sono soltanto degli americani, ma un po’ dappertutto, anche in Curia. Almeno quelli che le dicono hanno il vantaggio dell’onestà di dirle. A me piace questo. Non mi piace quando le critiche sono sotto il tavolo e ti fanno un sorriso che ti fa vedere i denti e poi ti pugnalano alle spalle. Questo non è leale, non è umano. La critica è un elemento di costruzione, e se la tua critica non è giusta, tu stai pronto a ricevere la risposta e fare un dialogo, una discussione, e arrivare a un punto giusto. Questa è la dinamica della critica vera. Invece la critica delle “pillole di arsenico”, di cui parlavamo, di quell’articolo che ho dato a padre Rueda, è un po’ gettare la pietra e nascondere la mano. Questo non serve, non aiuta. Aiuta i piccoli gruppetti chiusi, che non vogliono sentire la risposta alla critica. Una critica che non vuole sentire risposta è un gettare la pietra e nascondere la mano. Invece una critica leale: “Io penso questo, questo e questo”, ed è aperta alla risposta, questo costruisce, aiuta. Davanti al caso del Papa: “Questa cosa del Papa non mi piace”, gli faccio la critica, aspetto la risposta, vado da lui, parlo, faccio un articolo e gli chiedo di rispondere, questo è leale, questo è amare la Chiesa. Fare una critica senza voler sentire la risposta e senza fare il dialogo è non voler bene alla Chiesa, è andare dietro a un’idea fissa: cambiare il Papa, o fare uno scisma, non so. Questo è chiaro: una critica leale è sempre ben accetta, almeno da me.
Secondo, il problema dello scisma: nella Chiesa ci sono stati tanti scismi. Dopo il Vaticano I, l’ultima votazione, quella dell’infallibilità, un bel gruppo se n’è andato, si è staccato dalla Chiesa e ha fondato i Vetero-cattolici per essere proprio “onesti” con la tradizione della Chiesa. Poi loro stessi hanno trovato uno sviluppo differente e adesso fanno le ordinazioni delle donne; ma in quel momento erano rigidi, andavano dietro a una certa ortodossia e pensavano che il Concilio avesse sbagliato. Un altro gruppo se ne andò senza votare, zitti zitti, ma non vollero votare… Il Vaticano II ha creato queste cose, forse il distacco più conosciuto è quello di Lefebvre. Sempre c’è l’opzione scismatica nella Chiesa, sempre. È una delle opzioni che il Signore lascia sempre alla libertà umana. Io non ho paura degli scismi, prego perché non ce ne siano, perché c’è in gioco la salute spirituale di tanta gente. Che ci sia il dialogo, che ci sia la correzione se c’è qualche sbaglio, ma il cammino dello scisma non è cristiano. Pensiamo all’inizio della Chiesa, come è cominciato con tanti scismi, uno dietro l’altro, basta leggere la storia della Chiesa: ariani, gnostici, monofisiti...
Poi, mi viene da raccontare un aneddoto che ho detto qualche volta. È stato il popolo di Dio a salvare dagli scismi. Gli scismatici hanno sempre una cosa in comune: si staccano dal popolo, dalla fede del popolo di Dio. E quando nel Concilio di Efeso c’era la discussione sulla maternità divina di Maria, il popolo – questo è storico – stava all’ingresso della cattedrale quando i vescovi entravano per fare il concilio, stavano lì con dei bastoni, facevano vedere i bastoni e gridavano: “Madre di Dio! Madre di Dio!”, come a dire: se non fate questo vi aspettano… Il popolo di Dio aggiusta sempre le cose e aiuta. Uno scisma è sempre un distacco elitario provocato dall’ideologia staccata dalla dottrina. È un’ideologia, forse giusta, ma che entra nella dottrina e la stacca e diventa “dottrina” per un certo tempo. Per questo io prego che non ci siano degli scismi, ma non ho paura.
[Il giornalista riprende la domanda]
Cosa fare per aiutare?… Questo che sto dicendo adesso: non avere paura…; io rispondo alle critiche, tutto questo lo faccio. Forse se a qualcuno verrà in mente qualcosa che devo fare lo farò, per aiutare… Ma questo è uno dei risultati del Vaticano II, non di questo Papa o dell’altro Papa... Per esempio, le cose sociali che dico, sono le stesse che ha detto Giovanni Paolo II, le stesse. Io copio lui. Ma dicono: “Il Papa è troppo comunista…”. Entrano delle ideologie nella dottrina, e quando la dottrina scivola nelle ideologie, lì c’è la possibilità di uno scisma. E c’è anche l’ideologia behaviorista, cioè il primato di una morale asettica sulla morale del popolo di Dio. I pastori devono condurre il gregge tra la grazia e il peccato, perché la morale evangelica è questa. Invece una morale di un’ideologia pelagiana, per così dire, ti porta alla rigidità, e oggi abbiamo tante scuole di rigidità dentro la Chiesa, che non sono scismi ma sono vie cristiane pseudoscismatiche, che finiranno male. Quando voi vedete dei cristiani, dei vescovi, dei sacerdoti rigidi, dietro quell’atteggiamento ci sono dei problemi, non c’è la santità del Vangelo. Per questo dobbiamo essere miti con le persone che sono tentate di fare questi attacchi, stanno attraversando un problema, dobbiamo accompagnarli con mitezza. Grazie.
MATTEO BRUNI
L’ultima domanda è di Aura Miguel di Radio Renascença.
PAPA FRANCESCO:
Come ho parlato il portoghese?
AURA VISTAS MIGUEL (Radio Renascença, Portogallo)
Benissimo, tutti hanno capito, si capiva molto bene. Santità, io torno sul Mozambico solo per chiedere questo. Noi sappiamo che a Lei non piace visitare Paesi durante la campagna elettorale, eppure lo ha fatto in Mozambico, a un mese dalle elezioni, essendo giustamente il Presidente che L’ha invitata uno dei candidati. Come mai?
PAPA FRANCESCO:
Sì. Non è stato uno sbaglio. È stata una scelta presa liberamente, perché la campagna elettorale incominciava in questi giorni, e passava in secondo piano davanti al processo di pace. L’importante era visitare per aiutare a consolidare il processo di pace. E questo era più importante di una campagna che ancora non era incominciata, incominciava nei giorni successivi alla fine della mia visita. E lì al limite, facendo il bilancio tra le due cose, [abbiamo valutato]: sì, è importante consolidare. E poi ho potuto salutare gli avversari politici, questo per dare l’idea e sottolineare che l’importante era questo, e non “fare il tifo” per questo Presidente che io non conosco, non so come pensa, e neppure come pensano gli altri. Per me era più importante sottolineare l’unità del Paese. Ma quello che dice Lei è vero: dobbiamo rimanere distanti dalle campagne elettorali, questo sì è vero. Grazie.
Grazie tante a voi per il vostro lavoro! Vi sono riconoscente per tutto quello che fate. E pregate per me; io lo faccio per voi. Buon pranzo!
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