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sabato 19 gennaio 2019

La fiducia nasce dal basso di Giuseppe De Rita

La fiducia nasce dal basso
di Giuseppe De Rita

pubblicato su “Corriere della Sera”
del 16 gennaio 2019







Per descrivere lo stato d’animo degli italiani parliamo spesso di rancore, di risentimento, di cattiveria al limite; ma ne lasciamo spesso da parte uno più pericoloso degli altri: la sfiducia. E invece nella psicologia collettiva circolano in abbondanza la sfiducia nella capacità di tutti (politica, governo, classe dirigente) di immaginare e perseguire un nuovo ciclo di sviluppo; la sfiducia nella solidità dei conti pubblici (per la prima volta lo scorso mese, dopo decenni, gli italiani non hanno comprato titoli di Stato); la sfiducia nelle imprese e nelle banche (si fanno pochi investimenti e si è talvolta tentati di ritirare i soldi dal conto corrente); la sfiducia per una dinamica economica sentita come sempre incerta, con la conseguente propensione a privilegiare il risparmio e a concentrarlo in contanti. Non c’è bisogno di commissionare sondaggi per avere consapevolezza del clima di quasi inerte sfiducia che grava sul Paese.
Con crescente frequenza sentiamo allora dire che se non usciamo da tale clima non avremo per lungo tempo sviluppo economico, mobilità sociale, coesione civile, perché è la sfiducia, più del rancore, che ottunde l’intelletto e depotenzia ogni spirito di iniziativa. Si moltiplicano così gli appelli a far rivivere speranze e fiducia nel cervello e nel cuore degli italiani; ma, cedendo al vizio retorico che ci è proprio, finiamo per essere tutti dei pensosi predicatori del dovere di essere proiettati in avanti.
Il punto è sollecitare più etica delle responsabilità, più tensione al futuro, più confidenza nell’arricchimento dei rapporti umani, più alto spirito civico, magari più speranza esistenziale. Ma la fiducia (specie se collettiva) non fiorisce per nobili esortazioni dall’alto: la fiducia è un sentimento al tempo stesso intimo e complesso, tanto che Enzo Bianchi sostiene che essa è strettamente legata alla parola «fede» (sia religiosa che nuziale); e quindi non può, come sentimento intimo e complesso, venire dall’alto. Deve e può nascere dal basso, come è avvenuto del resto in Italia, dove i periodi di maggiore fiducia collettiva sono stati quelli in cui milioni di persone hanno vissuto «terra-terra» la speranza di «star meglio»: gli anni della ricostruzione postbellica, del miracolo italiano, della prima opulenza consumistica, della moltiplicazione delle imprese, dell’orgoglio del primo «made in Italy», dello sfondamento internazionale delle filiere del lusso e dell’enogastronomia. Ed erano periodi in cui nessuno ci predicava fiducia dall’alto, essa operava piuttosto nella quotidianità dei comportamenti quotidiani, sempre attenti a valorizzare la propria storia e la propria memoria collettiva.
Il peso della memoria nel creare fiducia è stato da noi italiani sempre sottovalutato, forse perché siamo prigionieri del pregiudizio sessantottino che la memoria ci uccide, ci ancora al passato e riduce la nostra capacità di guardare al futuro. Ma forse è tempo di ritrovare e rivalutare le nostre memorie, il passato che continua ad operare in noi. Sfiducia e disprezzo del passato (fino quasi alla coazione a «punirlo») non sono opzioni rivoluzionarie, ma regressive. Solo chi sa lavorare sugli assi lunghi della memoria ha l’occasione e le carte giuste per far fiduciosi passi in avanti. Vorrei in proposito fare tre citazioni personalizzate.
La prima riguarda un amico imprenditore valdostano che ha celebrato in questi mesi il bicentenario della sua azienda: mi ha detto che è impossibile per chiunque di noi andare così indietro nel tempo e capire una storia così lontana (senza neppure una fotografia dell’oscuro fabbro fondatore); ma lui ha voluto ripercorrerla anche nei minimi particolari. Ed alla fine, se ha una buona fetta del mercato mondiale di piccozze e ramponi, e se ha avuto l’anno scorso il prestigioso riconoscimento del Compasso d’oro, sa (e lo dice) che la sua fiducia di imprenditore nasce dalla storia.
La seconda citazione non è bicentenaria, ma centenaria. Per motivi tutti personali ho avuto modo di riascoltare molte canzoni napoletane e mi ha sorpreso quanto siano dolorosamente legate alla nostalgia e alla dimensione identitaria dei nostri emigrati in America. Una mi ha particolarmente colpito («Lacreme napulitane», del 1925), che parte dalla struggente nostalgia delle tradizionali feste natalizie e finisce con una drammatica ultima frase («io resto a fatica’ pe tutte quante, io so’ carne ’e maciello, so’ emigrante»). Son passati decenni e i nipoti e pronipoti di quella generazione dolente oggi magari sono immemori e baldanzosi ultrà di curve calcistiche; ma mi ha fatto piacere constatare che molti esponenti delle classi dirigenti meridionali abbiano sentito (e fatto sentire) che alla nostra generazione non è dato di considerare con paura e disprezzo la «carne di macello» che arriva in Italia, ricalcando le ciniche propensioni che molti americani ebbero verso i milioni di emigranti che arrivavano da loro a cavallo del ’900.
E la terza citazione, stavolta molto ravvicinata nel tempo, quasi attuale, viene da un volumetto arrivatomi per le feste natalizie dalla Fondazione per il Sud. Si intitola «Vico esclamativo» ed è la raccolta di venticinque storie di ragazzi napoletani del famigerato Rione Sanità, tutti passati (alcuni drammaticamente) fra malavita e carcere, e poi tornati a vivere e lavorare con dignità nella cooperativa-fondazione che gestisce ad ottimo livello le catacombe di San Gennaro a Capodimonte (andare a vedere per credere). Basterebbe leggere la prima storia, di Salvatore, per capire che quei ragazzi hanno fatto della loro storia la molla per avere fiducia in se stessi, nel proprio rione, nella vita. Una fiducia nata dal basso, da un livello che più basso non si può. Come basso era il livello del fabbro valdostano di duecento anni fa; e come era basso il livello dei nostri emigranti.
È dal basso che nasce la fiducia, non dimentichiamolo, specialmente noi, me compreso, che amiamo predicarla dall’alto.