Sette parole per il 2019
di p.Antonio Spadaro
Pubblicato in "La Civiltà Cattolica",
Quaderno n. 4045 - Anno 2019 Volume I
In questo tempo di cambiamenti e conflitti che ci sfidano, non possiamo correre il rischio di seguire ciò che leggiamo nel Gattopardo: «Viviamo in una realtà mobile alla quale cerchiamo di adattarci come le alghe si piegano sotto la spinta del mare». Bisogna reagire. Una reazione alla quale possiamo dar forma considerando sette parole.
Paura. Instillare la paura del caos è divenuta una strategia per il successo politico: si innalzano i toni della conflittualità, si esagera il disordine, si agitano gli animi della gente con la proiezione di scenari inquietanti. Questa retorica evoca forze potenti, ma forse non ancora emerse dal profondo della società e dell’opinione pubblica. La riflessione politica sarà irrilevante se non entra in contatto con le paure dei nostri contemporanei che sono attratti dalla cultura fondamentalista.
Ai leader religiosi coreani Francesco ha chiesto di usare «parole che si differenziano dalla narrativa della paura» e compiere «gesti che si oppongono alla retorica dell’odio». E di recente ha pure affermato: «Servono leader con una nuova mentalità. Non sono leader di pace quei politici che non sanno dialogare e confrontarsi: […] occorre umiltà, non arroganza».
Ordine. I rapporti tra Europa, Stati Uniti, Russia e Cina sono in ebollizione… alla ricerca di un nuovo ordine mondiale che attualmente pare solo un gran disordine. Più che mai il disordine reclama anche una solida collocazione internazionale dell’Italia e un’attiva politica estera specialmente nel Mediterraneo, punto di incontro di Europa, Africa e Asia. Forse occorre evocare un «nuovo ordine mediterraneo».
Migrazioni. I flussi migratori siano una delle priorità dell’Unione Europea dei prossimi anni, perché le migrazioni oggi rischiano di essere il grimaldello per far saltare l’Europa. Non sfuggono a nessuno le conseguenze del rimescolamento delle identità tradizionali e lo spaesamento che esso provoca. Bisogna affrontarlo con discernimento. Occorre non tradire mai i valori di fondo dell’umanità, ma metterli in pratica tenendo conto della situazione in cui si opera. Concretamente: è necessario lavorare all’integrazione.
Popolo. Per i populismi che sperimentiamo oggi, la forza di una democrazia dipende dall’esistenza di un popolo relativamente omogeneo con un’identità precisa e riconoscibile fondata sulla coesione etnica. Ma attenzione, perché quando la comunità etnica si pone al di sopra della persona, secondo Jacques Maritain, non vi è più alcun baluardo al totalitarismo politico. Le tradizioni antiliberali costituiscono ponti ideologici per le attuali alleanze tra cristianesimo e forme aggressive di populismo. Il rischio oggi per la Chiesa è altissimo: l’appartenere senza credere. E questo trasformerebbe la religione in ideologia: sarebbe la morte della fede.
Ma non possiamo ridurre la questione del popolo a «populismo». La questione del popolo è una cosa molto seria. Scriveva il cardinale Bergoglio nell’anno 2010: «Non serve un progetto di pochi e per pochi, di una minoranza illuminata o di testimoni, che si appropria di un senso collettivo. Si tratta di un accordo sul vivere insieme. È la volontà espressa di voler essere popolo-nazione nel contemporaneo». Queste parole scritte dall’allora primate d’Argentina dopo le elezioni del 4 marzo 2010 suonano come l’ammonimento più urgente anche per l’oggi.
Non basta più formare i giardini delle élite e discutere al caldo dei «caminetti» degli illuminati. Non bastano più le accolte di anime belle… Facciamo discorsi ragionevoli e illuminati, ma la gente è altrove. E il grande rischio è quello di immaginare il «popolo» in forma di «massa anonima». La verità è che molte persone si avvicinano ai partiti populisti o alle sette fondamentaliste perché si sentono lasciate indietro. Ecco perché la questione centrale oggi è quella della democrazia.
Democrazia. Emerge anche in Europa l’ossimoro di democrazie che possono morire per mani di leader eletti democraticamente. Sembra ormai insostenibile il divario tra il carattere globale dell’economia, della comunicazione e, ancor più, della finanza e la dimensione solamente locale della democrazia, che rischia di divenire quasi solo una gestione amministrativa. Si è incrinata la fiducia nei sistemi democratico-liberali. Si ha perfino simpatia per una certa improvvisazione democratica che dà almeno il senso di appartenenza.
La democrazia rappresentativa parlamentare è destinata dunque a estinguersi? Assolutamente no, ma la domanda di una «democrazia immediata», della quale si immagina che la rete possa essere luogo di azione e strumento, sembra averla messa in difficoltà. Qui c’è un problema, però anche una sfida da accogliere. Non possiamo far finta che la rete non esista e dobbiamo prendere atto che il consenso si forma anche nell’ambiente digitale. Il disagio si esprime soprattutto lì. Come fare a vivere la rete come forma di partecipazione democratica senza cadere in scorciatoie demagogiche?
Partecipazione. Scriveva il Papa, sempre in quel testo del 2010, che occorre «recuperare l’effettività dell’essere cittadini». Occorre trasformarsi «da abitante a cittadino». Questo è, in fondo, anche il vero problema dell’Europa: ha abitanti europei che ancora non si sentono cittadini europei.
Il «divario tra i popoli e le nostre attuali forme di democrazia» è stato uno dei temi forti del discorso di papa Francesco al terzo Incontro mondiale dei movimenti popolari del 2016. Il Papa li definiva «una forma diversa, dinamica e vitale di partecipazione sociale alla vita pubblica», che non è la forma del «partito politico» e che è capace di esprimere «attaccamento al territorio, alla realtà quotidiana, al quartiere, al locale, all’organizzazione del lavoro comunitario». Senza partecipazione la democrazia si atrofizza, diventa una formalità, perché lascia fuori il popolo nella costruzione del suo destino.
Lavoro. Pensiamo ai nostri giovani. I neet (not in education, employment or training) sono circa il 20% dei giovani italiani. 2/3 degli studenti di oggi faranno, da adulti, lavori che al momento neanche esistono. Oggi siamo colpiti da un nuovo malessere: la disoccupazione tecnologica, causata dal fatto che scopriamo nuovi modi per risparmiare lavoro a una velocità superiore di quella alla quale scopriamo nuovi modi per impiegare lavoro. Sembra esserci una differenza antropologica ormai tra l’uomo di Davos e il forgotten man, tra una élite di creativi innovatori e una massa di esecutori non qualificati. Servono quelle «tre T» delle quali parla Francesco, non come slogan: Tierra Techo Trabajo. Terra, casa e lavoro sono le cose fondamentali che danno dignità a una vita umana, rendono possibile la famiglia e permettono lo sviluppo umano integrale.
Per reagire, dunque, occorre prima di tutto riconnettersi con la società civile, con i «ceti popolari», ricostruire la relazione naturale con il popolo. Questa la parola: riconnettersi. Insomma, bisogna tornare a essere «popolari».