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mercoledì 11 settembre 2024

Massimo Recalcati: Quel che resta delle famiglie

Massimo Recalcati
Quel che resta delle famiglie
 

(Pubblicato su “la Repubblica” del 4 settembre 2024)


La ferocia del giovane famiglicida di Paderno non può essere separata dal candore della sua autogiustificazione: volevo separarmi da loro, volevo non subire più l’oppressione della mia famiglia.

In gioco è il grande tema dell’adolescenza: trovare la propria libertà svincolandosi dalle catene dei legami primari. Ma ciò che in questo caso trasforma in un dramma questa legittima esigenza che ogni adolescente porta con sé è il passaggio all’atto criminale. Significa che la separazione dalla famiglia non è stata simbolizzata attraverso una elaborazione di pensiero soggettiva, né è stata messa in parola, ma è stata agita direttamente e crudelmente nel reale. È la differenza tra il sogno e la veglia, tra il desiderio e la realtà, che in questi casi viene meno. In questo senso il ricorso alla violenza in generale e, in particolare, nel tempo dell’adolescenza, assomiglia ad una vera e propria allucinazione. Essa punta a realizzare immediatamente quello che nella realtà appare difficilmente realizzabile.

Si tratta di una tremenda e tragica scorciatoia. Se in ogni adolescente c’è il sogno di emanciparsi dai vincoli della propria famiglia, non tutti ricorrono all’esercizio efferato della violenza per appagare questo sogno. Il conflitto tra le generazioni deve svilupparsi giustamente sul piano simbolico e non cortocircuitare col reale. Nondimeno, molto spesso la violenza giovanile è vissuta come risposta alla violenza supposta o effettivamente subita degli adulti. È sempre una violenza, alla sua radice, difensiva anche quando appare nella sua forma più aggressivamente rivendicativa. Non a caso questo giovane assassinio sembra abbia covato il desiderio di arruolarsi nelle truppe ucraine per aiutare quel paese a difendersi dall’aggressione ingiustificata della Russia.

La violenza adolescente spesso porta con sé un fantasma giustizialista. In questo caso con la complicazione tragica che la vittima diviene giudice e boia da un istante all’altro. Ma più in generale, il passaggio all’atto violento implica sempre uno sfaldamento della legge della parola. Non mette, dunque, sotto accusa solo il carattere smidollato dei genitori o la frammentazione della famiglia ipermoderna, ma un’epoca intera che sputa senza ritegno su questa legge. È evidente che la stagione della guerra che stiamo collettivamente vivendo segnala un tracollo clamoroso della parola nella forma di un fallimento generalizzato della politica.

Le famiglie non sono nicchie separate dalla società ma respirano la sua aria a pieni polmoni. 
Il nostro tempo non è, dunque, solo il tempo (benedetto) dell’evaporazione della famiglia patriarcale, ma è anche il tempo che non sa offrire risposte a quella evaporazione se non sul piano del rimpianto nostalgico del passato o della critica nichilistica del legame famigliare tradizionale. Il problema credo sia invece quello di come si possa essere dei genitori sufficientemente buoni inun tempo dove il carattere impossibile di questo mestiere è messo a dura prova da una realtà che svaluta sistemicamente il valore testimoniale della parola.

Non si tratta allora di riesumare una vecchia e ormai decrepita autorità, ma di dare sempre più valore alla testimonianza singolare. Quanto, per esempio, i media sanno valorizzare gli infiniti atti di testimonianza genitoriale positivi e non solo esibire i drammi famigliari efferati come quello di Paderno che di fatto si contano sulle punte delle dita? Al tempo stesso occorre non trascurare la presenza di un disagio effettivo che caratterizza il nuovo mondo dell’adolescenza.

Si tratta anche in questo caso di non ignorare ma, al tempo stesso, di non diffondere panico, allarmismi inutili per un’emergenza che se è tale lo è oramai da diversi decenni. Piuttosto evitare l’eccesso di medicalizzazione, di psichiatrizzazione, di vittimizzazione del disagio. I sintomi e le crisi degli adolescenti attendono interlocutori che non si limitino a riconoscere in essi una malattia da curare, ma una modalità per provare ad esistere a proprio modo. Il problema non è riducibile a quello che accade nelle famiglie ma al collasso generalizzato della legge della parola. Si può invece decidere, come fanno alcuni, di imputare proprio alla disgregazione della famiglia patriarcale la causa prima della diffusione della violenza giovanile. Bisogna allora fare la ramanzina ai nuovi genitori che non saprebbero più dare di se stessi l’immagine di adulti autorevoli dimenticando però che nel nostro tempo l’autorevolezza non può più coincidere con la solidità e l’infallibilità esemplare.

La testimonianza genitoriale è oggi senza modelli, obbligata a reinventarsi, a barcamenarsi, a navigare in mare aperto. Il nostro tempo impone la testimonianza singolare al posto dell’esemplarità ideale. Certo, si può e rimpiangere il passato, la tradizione, Dio, la patria e la famiglia naturale. Ma si può davvero avere nostalgia della vecchia famiglia dove la voce del padre sentenziava inflessibile il senso della Legge, del bene e del male, rendendo di fatto impossibile ogni circolazione della parola? Davvero pensiamo che per rispondere all’attuale crisi della famiglia la soluzione più adeguata sia coltivare il rimpianto frustrato per i bei tempi andati? Ma erano poi davvero così belli quei tempi? Basterebbe pensare alla violenza pedagogica che imperava, prima della contestazione del ’68, nelle nostre scuole e nelle nostre famiglie per avere dei seri dubbi.

Il rigore di quei padri padroni e di quelle madri sacrificali — di cui la nostra letteratura e il nostro cinema hanno offerto ritratti indimenticabili — sarebbe il giusto antidoto per questa disgregazione in corso non solo della famiglia contemporanea ma anche del discorso educativo in quanto tale?

Non credo. La tragedia di Paderno solleva per l’ennesima volta un grande tema: come reimpostare il discorso educativo nel tempo della sua evaporazione senza ricadere in una forma usurata di nostalgia patriarcale? Gli psicologi fustigatori delle famiglie smidollate hanno già dimenticato ovviamente la prova straordinaria che le famiglie italiane hanno dato durante il periodo della pandemia. Quanta cura, quanta pazienza, quanta dedizione è stata necessaria offrire ai nostri figli in quel tempo traumatico? Cosa saremmo stati senza l’ancora del legame famigliare? Condivisione dell’angoscia, della difficoltà, della frustrazione, della precarietà, della vita rinchiusa. Non è forse questa un’altra immagine della famiglia che dovremmo imparare a coltivare rispetto a quella che la riduce ad una centralina pedagogica e che molti vorrebbero ripristinare?

(Fonte: sito dell'autore)