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mercoledì 4 settembre 2024

L'apparente "normalità" può diventare tragedia che sconvolge e interpella tutti...

L'apparente "normalità" può diventare tragedia che sconvolge e interpella tutti...


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Non lasciamo che la tragedia di Paderno Dugnano diventi solo uno show degli orrori

Madre, padre, fratello minore accoltellati a morte dal figlio diciassettenne. La strage di Paderno Dugnano in apparenza senza un motivo ci disorienta e ci spaventa. Abbiamo chiesto alla psicopedagogista Barbara Tamborini di aiutarci a trovare un perché, come comportarsi come genitori, e se davvero gli adolescenti mostrano atteggiamenti sempre più violenti


Un ragazzo di 17 anni uccide nella notte uno dopo l’altro, prima nel sonno il fratello di 12 anni che dormiva nella sua camera, poi la madre e il padre accorsi dopo essere stati svegliati dal rumore della colluttazione. Con un coltello da cucina ha menato fendenti con una tale forza da non lasciare scampo neppure a un uomo alto e robusto come suo padre. E subito dopo quello stesso ragazzo, con un ultimo brandello di feroce lucidità, o forse di disperazione, ha anche provato a scagionarsi, telefonando ai carabinieri e dicendo che aveva uccio il padre dopo che l’uomo aveva accoltellato a morte moglie e figlio. Quando, dopo poche ore di interrogatorio, ha confessato tra le lacrime di essere stato lui a commettere la strage, ha semplicemente detto che sentiva un vuoto dentro, che si sentiva un estraneo in quella famiglia, e che uccidendoli tutti si era illuso di smettere di soffrire.

Una famiglia normale, un ragazzo normale, nessun problema apparente, nessun disagio manifesto. Una notizia che più di altre ci ha raggelato, ci ha fatto istintivamente pensare che potrebbe accadere a chiunque, e sì, anche a noi. E anche il popolo dei social, di solito così pronto a lanciare invettive, emanare verdetti, accuse, proporre soluzioni, è rimasto pietrificato. In attesa che possano emergere altri dettagli sulla vicenda, ne abbiamo parlato con la psicopedagogista Barbara Tamborini che si occupa da anni di problematiche adolescenziali ed educazione alla genitorialità. «Anche il mio primo pensiero di fronte a questo evento terribile è stato quello di cercare una spiegazione. Al momento non ce ne sono di manifeste e capisco che ciò può suscitare disorientamento nelle famiglie. Perché, da un lato, può alimentare il dubbio che se rimprovero mio figlio, se gli do dei limiti, se genero in lui delle frustrazioni, potrei rischiare di scatenare in lui un risentimento che prende direzioni estreme. Dall’altro posso invece pensare che anche se faccio tutto il possibile, se sono amorevole, non giudicante, può accadere comunque una tragedia come questa. Allora mi sento di dire due cose: da un lato un evento come questo non deve mettere in discussione le basi di una buona pratica educativa fatta di ascolto ma anche di limiti, di dialogo ma anche di contenimento. E che la paura non è mai un sentimento utile nella relazione. Esiste in ogni aspetto della vita una parte di imprevedibilità, e nel momento in cui diventiamo genitori un margine di rischio è ineliminabile. I figli inoltre sono persone altre da noi, e anche se siamo stati amorevoli con loro potrebbero volersi separare da noi, prendere le distanze, anche senza materialmente a ucciderci».

Quello che differenza questa strage familiare da parte di un ragazzo e rispetto ad altre in apparenza analoghe (pensiamo a Pietro Maso, a Erika e Omar per citare solo due delle più note) è la totale gratuità. In quella villetta di Paderno Dugnano alle porte di Milano non c’erano - per quello che hanno affermato i testimoni - conflitti, litigi, ripicche, assunzione di droghe, avidità economica, nulla che possa aver innestato la miccia. Come avrebbe potuto essere evitato se né la famiglia né le altre agenzie educative o relazioni (il ragazzo aveva amici, una fidanzata, giocava a pallavolo frequentava un liceo, viveva vicino a nonni e zii) avevano notato un malessere, una crisi? Se solo la sera prima c’era stata una festa di famiglia per il compleanno di papà Fabio, 51 anni, e il futuro omicida aveva partecipato con tutti gli altri, semplicemente, come spesso faceva, solo un po’ in disparte e taciturno? «Quello che un genitore dovrebbe fare prima di ogni altra cosa», continua Barbara Tamborini, «è mantenere quel contatto profondo con i figli, un sentire emotivo che inizia dal primo giorno di vita e che rimane inalterato anche se si vive una relazione conflittuale. È il filo che permette di ritrovarsi, genitore e figlio, anche dentro alla rabbia, grazie a uno sguardo, a un gesto. Non possiamo sapere se questo contatto ci fosse, o se si fosse perso a un certo punto, o se i genitori, a fronte del fatto che in apparenza andasse tutto bene, hanno fatto finta di non vederlo, oppure di rimandare il momento per affrontarlo. Ma bisognerebbe anche capire di che cosa si nutriva quel ragazzo, nel senso di quali pensieri, contenuti…».

Episodi di violenza che hanno come protagonisti i giovani se ne verificano sempre più spesso. Anche se questo è particolarmente terribile, ci chiediamo se possa esserci anche una parte di spiegazioni in questo aumento generalizzato nell’adolescenza della rabbia e dell’aggressività. «L’istintività e le pulsioni, l’agire senza pensare è evolutivamente sano, fa parte del processo normale di un adolescente» conclude Tamborini; «quello che è cambiato è che l’ambiente, che mette benzina sul fuoco di questa energia incontenibile con sollecitazioni massicce e spesso precoci. L’istinto rischia così di debordare e fare danni se non è contenuto, aiutato a metabolizzare da figure adulte con mille strumenti che possono andare da una carezza a essere semplicemente da esempio. E purtroppo, se da un lato questa benzina è sempre di più, le figure adulte sono sempre più deboli, mentre dovremmo fare di tutto per recuperare terreno sul versante della fiducia, dell’autorevolezza, dell’essere punto di riferimento e mediatori. Di fronte a una notizia come questa, invece di trasformarla in uno show morboso dell’orrore che sicuramente riempirà ogni tipo di media, dovremo indirizzare il disagio che ci provoca nello studio, nel farsi domande nel cercare risposte».
(fonte: Famiglia Cristiana, articolo Fulvia Degl'Innocenti 02/09/2024) 

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Il cappellano del Beccaria: «Il ragazzo mi ha chiesto di confessarsi. Mi ha detto: "Tu sei quello di "Non esistono ragazzi cattivi"»

Don Claudio Burgio ha incontrato nel carcere minorile di Milano il 17enne che nella notte tra sabato e domenica ha ucciso i genitori e il fratello di 12 anni: «Ho trovato un ragazzo fragile, chiaramente provato ma molto lucido e in grado di comunicare. Mi ha subito citato la frase che è anche il titolo del libro in cui racconto la mia esperienza di educatore. In lui, come in altri ragazzi che incontro, ho trovato un vuoto profondissimo che è un abisso a cui gli adulti, compresi noi preti, non sappiamo né intercettare né rispondere»

 
«Appena mi ha visto, ha voluto subito confessarsi. Ho trovato un ragazzo fragile, chiaramente provato ma molto lucido e in grado di comunicare. Mi ha detto questa frase: “Tu sei quello di ‘Non esistono ragazzi cattivi’” e poi l’ho confessato. È stato un incontro molto intenso».

Il cappellano del carcere minori Beccaria di Milano,
 don Claudio Burgio
Don Claudio Burgio è il cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano dove si trova il diciassettenne che nella notte tra sabato e domenica scorsi ha ucciso il padre, la madre e il fratello di 12 anni a Paderno Dugnano, nell’hinterland di Milano. «Il ragazzo ha chiesto di confessarsi appena mi ha visto», racconta don Claudio con un filo di commozione, «poi dopo la confessione abbiamo parlato ancora. Sui giornali era uscito il ritratto di un adolescente con difficoltà a comunicare ma io questa difficoltà non l’ho vista. Questa vicenda scuote tutti, compreso me che in vent’anni da educatore a contatto con ragazzi dal vissuto difficile, ne ho viste tante».

“Non esistono ragazzi cattivi” è il motto di don Claudio che lo ha messo anche nel suo profilo WhatsApp ed è anche il titolo di un libro, pubblicato nel 2015 con la prefazione di don Gino Rigoldi, in cui ha raccontato la sua esperienza di educatore al Beccaria tra crisi e rinascite. «Non so come mai conoscesse questo motto, probabilmente mi ha visto in uno dei tanti incontri che faccio nelle scuole», dice il cappellano, «questo ragazzo, come tanti altri che incontro qui in carcere e nella comunità Kayros, ha dentro un dolore profondissimo che non riesce a decifrare e a vivere. La nostra società chiede sempre di essere performanti e ha la pretesa di avere sempre una risposta su tutto, ma sono risposte banali che non solo non colmano il vuoto ma neanche lo sfiorano».

Don Claudio fa una premessa: «Non mi avventuro in analisi psicologiche o sociologiche dopo aver visto il ragazzo una sola volta perché sarebbe sbagliato e rischierei di scivolare nella banalità e nella retorica. Quello che mi sento di dire è che in questi casi ci vuole un lungo silenzio. Un’epochè, una sospensione del giudizio, perché è troppo drammatico quando accaduto da poter essere spiegato subito come noi magari pretendiamo di fare. Il ragazzo non è in grado di dare una spiegazione, noi nemmeno. Non è pensabile capire oggi il perché di questo gesto. Bisogna avere pazienza, aspettare il tempo che sarà necessario».

Che impressione ha ricavato dopo questo incontro?

«Si tratta di un ragazzo che con parola abusata definirei “normale” all’interno di una famiglia “normale” che non ha nulla a che fare con un vissuto di disagio che può sfociare nel bullismo, nell’uso di stupefacenti o nella violenza, come accade ad altri ragazzi che incontro e che seguo. Quello che ho percepito, e che riscontro in tanti ragazzi che vivono con me in comunità, che c’è un vuoto interiore profondo. Molti di questi adolescenti hanno domande molto forti sul perché del dolore e della sofferenza ma sono analfabeti dal punto di vista emotivo. Non riescono a decifrare queste emozioni, a ordinarle nella propria esistenza e di conseguenza neanche a viverle».

Gli adulti non sono più un punto di riferimento?

«No perché l’adulto non è in grado di dare risposte che li soddisfino. Anche noi preti non riusciamo più a dare risposte convincenti, credibili, provocatorie nel senso buono. Diamo sempre più risposte dogmatiche, insegniamo la fede come una serie di precetti da osservare e basta. Anche noi come Chiesa balbettiamo di fronte ai grandi interrogativi sulla vita».

La radice è il male interiore.

«Sì. C’è chi come la maggior parte dei ragazzi esterna questo vuoto con gli stupefacenti o condotte violente e chi, come in questo caso, ad un certo punto implode e compie un gesto di questo tipo. Il male interiore è profondo, non è spiegabile, c’è una sofferenza che prende proprio dentro, è un vuoto che scava dentro l’abisso. Stando con i ragazzi, mi accorgo sempre di più che noi adulti non siamo abituati a entrare in profondità, forse perché vogliamo addolcire loro un’esistenza già difficile, forse perché temiamo di avventurarci con i nostri figli in discorsi profondi, esistenziali. Ho la sensazione, anzi la certezza, che questi ragazzi non sappiano a chi rivolgersi».

L’ha colpita il fatto che gli abbia detto quella frase sui ragazzi cattivi?

«Sì e mi ha colpito il fatto che associasse me come cappellano a quella frase».

Nell’interrogatorio in cui ha confessato il triplice delitto, il ragazzo ha detto che si sentiva “oppresso” all’interno della propria famiglia.

«Lo ha ripetuto anche a me. Un senso di oppressione e un’estraneità non solo per quanto riguarda la famiglia ma in generale, anche nelle altre relazioni sociali. Un sentimento che io ho percepito non come una colpa che lui attribuisce agli altri ma al fatto che a certe sue domande esistenziali nessuno è in grado di rispondere».

Cosa dice questa vicenda a chi, come educatore o genitore, si sente smarrito.

«Siamo di fronte a un vuoto educativo che compensiamo, ad esempio, con una risposta medica. Questo è un altro grande problema. Quando uno agisce in un certo modo o è instabile o è pazzo. Anche le parole che adoperiamo per discutere di questi casi arrivano tutte dal gergo medico: follia, psicofarmaci, calmanti. È un modo tragicamente sbagliato di intendere le domande profonde dei ragazzi».
(fonte Famiglia Cristiana, articolo di Antonio Sanfrancesco 03/09/2024)

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Il 17enne di Paderno, da ragazzo normale a killer spietato

La madre lo adorava e lo chiamava "Il mio piccolo Einstein", a scuola solo buoni vuoti e un comportamento esemplare. Niente social, solo pochi amici fidati, ma forse, dice oggi un suo compagno di classe di Paderno, "aveva la guerra dentro". È difficile anche per gli inquirenti tratteggiare l'identikit di un ragazzo apparentemente normale che all'improvviso si è trasformato in un killer spietato, sterminando la sua famiglia. ...


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Leggi anche la riflessione di Marina Corradi: