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martedì 24 settembre 2024

Giuseppe Savagnone Il caso «Open Arms»: il processo e le domande della nostra coscienza

Giuseppe Savagnone

Il caso «Open Arms»:
il processo e le domande della nostra coscienza


Le polemiche

Ha scatenato una tempesta di polemiche la richiesta di una condanna a sei anni di reclusione, avanzata dalla Procura di Palermo nei confronti del ministro Salvini, accusato di aver negato illegittimamente, nell’agosto del 2019 – quando era vicepremier e ministro degli Interni del primo governo Conte – , il permesso di far sbarcare dalla nave della ONG spagnola «Open Arms», ormeggiata nel porto di Lampedusa, 147 profughi soccorsi in mare.

«È incredibile», ha reagito la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, «che un ministro della Repubblica Italiana rischi 6 anni di carcere per aver svolto il proprio lavoro difendendo i confini della Nazione, così come richiesto dal mandato ricevuto dai cittadini. Trasformare in un crimine il dovere di proteggere i confini italiani dall’immigrazione illegale è un precedente gravissimo».

Ha risposto una nota dell’Associazione nazionale magistrati: «Sono state rivolte nei confronti di rappresentanti dello Stato nella Pubblica Accusa insinuazioni di uso politico della giustizia e reazioni scomposte, anche da parte di esponenti politici e di Governo.

Sono dichiarazioni gravi, non consone alle funzioni esercitate, in aperta violazione del principio di separazione dei poteri, indifferenti alle regole che disciplinano il processo, che minano la fiducia nelle istituzioni democratiche e che costituiscono indebite forme di pressione sui magistrati giudicanti.

Sarà il Tribunale a vagliare la fondatezza dell’accusa, con indipendenza e terzietà, guidato solo dallo scrupoloso rispetto di tutte le norme vigenti in materia».

Intanto migliaia di messaggi di insulti e minacce, insieme a pesanti lettere intimidatorie, sono state indirizzate in questi giorni ai magistrati della Procura di Palermo che hanno chiesto la condanna, al punto da allarmare le autorità per la loro sicurezza.

In attesa della requisitoria dell’avvocata dell’imputato, Giulia Bongiorno, che sarà tenuta il 18 ottobre, e della sentenza, che dovrebbe essere emessa dal Tribunale nei giorni successivi, vale forse la pena di fare una riflessione su ciò che sta accadendo e sul suo significato.

I fatti

Ma prima di tutto, come è sempre necessario per una seria interpretazione, la ricostruzione dei fatti. Tra il 1 e il 10 agosto 2019 la «Open Arms» era intervenuta tre volte al largo della Libia, soccorrendo più di 150 migranti. Fin dall’inizio la ONG aveva chiesto alle autorità italiane di poter attraccare in un porto del nostro paese.

Intanto, però, il 5 agosto il Senato aveva approvato il cosiddetto “decreto sicurezza bis”, fortemente voluto dal vicepremier Salvini, che, tra le altre cose, dava al governo il potere di vietare a qualsiasi nave l’ingresso nelle acque e nei porti italiani ove ravvisasse una minaccia per la sicurezza nazionale.

Un provvedimento la cui legittimità, a dire il vero, fin all’inizio è apparsa controversa: il soccorso in mare in caso di pericolo e il diritto di asilo, infatti, sono regolati da numerose convenzioni internazionali, recepite nel nostro ordinamento, che non possono essere scavalcate da una legge nazionale.

Sta di fatto che, in base alla recentissima novità legislativa, il governo aveva risposto negativamente alla richiesta della «Open Arms», vietandole l’ingresso nelle acque territoriali italiane, con un provvedimento emanato dal ministero di Salvini, ma firmato anche dagli allora ministri dei Trasporti (Danilo Toninelli) e della Difesa (Elisabetta Trenta). I legali di «Open Arms» avevano allora fatto ricorso al TAR del Lazio, che il 14 agosto sospese gli effetti del divieto d’ingresso.

In quel momento la «Open Arms» era in navigazione, stracarica di naufraghi, già da quasi due settimane, e a bordo la situazione stava diventando sempre più difficile.

Ma, grazie alla sentenza del TAR, il 15 agosto poté finalmente entrare nelle acque territoriali italiane e arrivare fino alle coste dell’isola di Lampedusa, dove chiese ufficialmente il permesso di sbarcare le persone soccorse. Ma Salvini si oppose.

La difesa sostiene che lo faceva a nome del governo, che era unanime su questa presa di posizione. Quel che è certo è che, davanti a un secondo provvedimento, emanato dal ministro dopo la sentenza del TAR, questa volta Toninelli e Trenta rifiutarono di controfirmarlo. A evidenziare ulteriormente le divergenze interne al governo è la lettera aperta che lo stesso 15 agosto il presidente del Consiglio Giuseppe Conte scrisse a Salvini, prendendo le distanze dal suo operato.

L’opposizione del vicepremier rimase, tuttavia, inflessibile e resistette a lungo anche alla proposta – poi alla fine a malincuore accolta – di far scendere almeno i 32 minori che erano a bordo.

Solo la sera del 20 agosto, dopo 19 giorni – per ordine del procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, che lo impartì dopo aver visitato la nave e constatato le condizioni di sfinimento dei profughi – fu infine consentito alle persone ancora sulla Open Arms di sbarcare.

A seguito di questi fatti, nel novembre 2019, Salvini venne indagato con l’accusa di sequestro di persona e omissione d’atti d’ufficio. Il Tribunale dei Ministri, recependo le conclusioni della Procura, nel febbraio successivo chiese al Senato l’autorizzazione a procedere nei confronti del ministro.

A questo proposito, l’articolo 96 della Costituzione recita: «Il presidente del Consiglio dei ministri ed i ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale».

Già due volte, nel gennaio e poi nel settembre del 2019, il Tribunale dei ministri di Catania aveva fatto un’analoga richiesta di autorizzazione a procedere al Senato nei riguardi di Salvini, rispettivamente per il divieto di sbarco dei migranti dalla nave della marina italiana «Diciotti» e dalla «Gregoretti», ma nel primo caso la richiesta era stata respinta dal Senato, mentre nel secondo era stata accolta (intanto era cambiato il governo, e ora esso era passato dall’alleanza Lega-5Stelle a quella PD-5Stelle), ma il giudice dell’udienza preliminare di Catania (GUP) aveva emesso la sentenza di non luogo a procedere con la secca motivazione: «Il fatto non sussiste».

Anche nel caso della Open Arms, il 30 luglio del 2020, il Senato diede al Tribunale dei ministri di Palermo l’autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini. Anche stavolta la difesa, con l’avvocato Giulia Bongiorno, chiese il non luogo a procedere “perché il fatto non sussiste”.

Ma il GUP di Palermo questa volta ritenne che il processo fosse da fare, dando così l’avvio, in aprile, al dibattimento andato avanti per due anni e che ora è arrivato alla sua conclusione.

Le argomentazioni della difesa e dell’accusa

Se, dai nudi fatti, si passa al merito, il commento del vicepremier, alla notizia della richiesta dei PM è stato: «L’articolo 52 della Costituzione italiana recita che la difesa della patria è un sacro dovere del cittadino. Mi dichiaro colpevole di aver difeso l’Italia e gli italiani, mi dichiaro colpevole di aver mantenuto la parola data».

In seguito il leader della Lega ha ribadito la sua posizione, dichiarando che non avrebbe patteggiato la pena: «No, non patteggio perché ritengo di aver difeso la sicurezza del mio paese e di aver mantenuto una promessa, da politico dissi “Votatemi e riduco gli sbarchi”».

Da parte loro i PM dopo aver ricordato che, dal punto di vista giuridico, «le convenzioni internazionali sono chiarissime», e che in base ad esse «non si può chiamare in causa la difesa dei confini senza tenere conto della tutela della vita umana in mare», hanno insistito nella requisitoria su un punto ancora più fondamentale: «C’è un principio chiave non discutibile: tra i diritti umani e la protezione della sovranità dello Stato sono i diritti umani che nel nostro ordinamento, per fortuna democratico, devono prevalere».

Le regole del gioco democratico

Davanti a questo quadro, è difficile non restar sorpresi dell’intervento del presidente del Senato, Ignazio La Russa: «Ho fiducia piena nella giustizia, ma penso che spesso la pubblica accusa, in processi come questo, fa prevalere la tesi che vuole affidare al PM il compito di interpretazione estensiva delle norme. La giustizia secondo loro dovrebbe interpretare le norme e correggere. Ma non tocca alla magistratura correggere le norme, anche quando fossero sbagliate: può solo applicare la legge».

Quale? Il decreto sicurezza bis o le convenzioni internazionali che l’Italia accetta come prevalenti sulle altre norme, comprese quelle del decreto stesso? È stato veramente «estensivo» dare la precedenza alle prime sul secondo e alla sentenza del TAR del Lazio rispetto ai provvedimenti amministrativi di un singolo ministro?

In ogni caso, tutti gli esperti di diritto (strano che La Russa, avvocato, non lo ricordi) sanno bene che ogni applicazione della legge implica una sua interpretazione.

Naturalmente le interpretazioni – comprese quelle dei PM e dei giudici – sono controvertibili, e per questo è previsto che le sentenze siano appellabili ed esposte a revisione nel giudizio di secondo, e poi in quello di terzo grado.

Si può quindi dissentire dalle tesi della magistratura – questo fa parte delle regole del gioco in democrazia – , ma non dichiarare, come hanno fatto il capo del Governo e la seconda carica dello Stato, che esse sono il frutto di un tentativo ideologico di «trasformare in un crimine il dovere di proteggere i confini italiani dall’immigrazione illegale» e di «correggere le norme».

Perché questo è in aperto contrasto con la separazione dei poteri e con l’autonomia della magistratura, solennemente sancite dalla nostra Costituzione. Come lo sarebbe stato se l’Associazione nazionale magistrati, all’indomani della legge sull’autonomia differenziata o delle decisioni del governo in politica estera, le avesse contestate pubblicamente, dichiarandole “incredibili” e frutto di un modo scorretto di interpretare gli interessi del nostro paese.

Lo stesso vale per la reazione dell’opinione pubblica. Si può essere d’accordo o in disaccordo con un’arringa. La sola cosa inaccettabile è quella che sta accadendo nel processo a Salvini: e cioè che i magistrati vengano attaccati e minacciati nello svolgimento del loro servizio al paese, nell’evidente intento di condizionarli.

Un’ultima domanda

Ma c’è forse qualcosa di più profondo che bisogna avere il coraggio di chiedersi. Se davvero Salvini ha commesso le violazioni ai diritti umani che oggi gli vengono contestate dalla legge, lo ha fatto sull’onda di un consenso popolare che gli aveva fatto raggiungere nei sondaggi il 36%.

Oggi l’entusiasmo nei suoi confronti è molto scemato, ma il suo slogan sulla “difesa delle frontiere” è stato fatto proprio dagli altri partiti di governo (vedi campi di detenzione in Albania), che continuano ad avere il pieno appoggio della maggioranza relativa degli elettori.

Il vicepremier e i giornali che lo fiancheggiano non hanno dunque del tutto torto quando dicono che ciò che è stato fatto lo è stato in nome degli italiani e che, anche oggi, in fondo, «siamo tutti Salvini» («La Verità» del 15 settembre).

Ma questo significa che siamo tutti – o almeno in tanti – su quel banco degli imputati e dobbiamo anche noi chiederci se davvero la vita e la dignità di un essere umano (in questo caso di 147) debbano venire prima o dopo le scelte del potere politico.

A questa domanda non possiamo sottrarci, fingendo di essere solo degli spettatori di un processo che non ci riguarda. I giudici faranno il loro mestiere emettendo una sentenza in base alle leggi italiane. Ma la risposta noi la dobbiamo dare alla nostra coscienza.
(fonte: Tuttavia 20/09/2024)