Il Papa agli Stati generali della Natalità:
«La vita umana non è un problema, è un dono.»
“Il tema della natalità mi sta molto a cuore”. Papa Francesco ha iniziato con queste parole il suo intervento alla quarta edizione degli Stati generali della natalità, il 10 maggio a Roma, presso l’auditorium di via della Conciliazione.
“Realismo, lungimiranza e coraggio” le parole chiave del suo discorso che pubblichiamo in forma integrale di seguito.
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI ALLA IV EDIZIONE DEGLI
STATI GENERALI DELLA NATALITÀ
Auditorium di Via della Conciliazione (Roma)
Venerdì, 10 maggio 2024
Distinte Autorità,
Rappresentanti della società civile,
cari fratelli e sorelle, cari ragazzi e bambini, buongiorno!
È bello fare un applauso quando uno dice “buongiorno”, perché tante volte non ci salutiamo. È bello l’applauso al “buongiorno”. E grazie a Gianluigi e a quanti lavorano per questa iniziativa. Sono contento di essere ancora con voi perché, come sapete, il tema della natalità mi sta molto a cuore. Ogni dono di un figlio, infatti, ci ricorda che Dio ha fiducia nell’umanità, come sottolinea il motto “Esserci, più giovani più futuro”. Il nostro “esserci” non è frutto del caso: Dio ci ha voluti, ha un progetto grande e unico su ciascuno di noi, nessuno escluso. In questa prospettiva, è importante incontrarsi, lavorare insieme per promuovere la natalità con realismo, lungimiranza e coraggio. Vorrei riflettere un po’ su queste tre parole-chiave.
Prima: realismo. In passato, non sono mancati studi e teorie che mettevano in guardia sul numero degli abitanti della Terra, perché la nascita di troppi bambini avrebbe creato squilibri economici, mancanza di risorse e inquinamento. Mi ha sempre colpito constatare come queste tesi, ormai datate e superate da tempo, parlassero di esseri umani come se si trattasse di problemi. Ma la vita umana non è un problema, è un dono. E alla base dell’inquinamento e della fame nel mondo non ci sono i bambini che nascono, ma le scelte di chi pensa solo a se stesso, il delirio di un materialismo sfrenato, cieco e dilagante, di un consumismo che, come un virus malefico, intacca alla radice l’esistenza delle persone e della società. Il problema non è in quanti siamo al mondo, ma che mondo stiamo costruendo - questo è il problema -; non sono i figli, ma l’egoismo, che crea ingiustizie e strutture di peccato, fino a intrecciare malsane interdipendenze tra sistemi sociali, economici e politici. [1] L’egoismo rende sordi alla voce di Dio, che ama per primo e insegna ad amare, e alla voce dei fratelli che ci stanno accanto; anestetizza il cuore, fa vivere di cose, senza più capire per cosa; induce ad avere tanti beni, senza più saper fare il bene. E le case si riempiono di oggetti e si svuotano di figli, diventando luoghi molto tristi (cfr Omelia della Messa per la comunità cattolica congolese, 1° dicembre 2019). Non mancano i cagnolini, i gatti…, questi non mancano. Mancano i figli. Il problema del nostro mondo non sono i bambini che nascono: sono l’egoismo, il consumismo e l’individualismo, che rendono le persone sazie, sole e infelici.
Il numero delle nascite è il primo indicatore della speranza di un popolo. Senza bambini e giovani, un Paese perde il suo desiderio di futuro. In Italia, ad esempio, l’età media attualmente è di quarantasette anni – ma ci sono Paesi del centro Europa che hanno l’età media si ventiquattro anni – e si continuano a segnare nuovi record negativi. Purtroppo, se dovessimo basarci su questo dato, saremmo costretti a dire che l’Italia sta progressivamente perdendo la sua speranza nel domani, come il resto d’Europa: il Vecchio Continente si trasforma sempre più in un continente vecchio, stanco e rassegnato, così impegnato ad esorcizzare le solitudini e le angosce da non saper più gustare, nella civiltà del dono, la vera bellezza della vita. E c’è un dato che mi ha detto uno studioso di demografia. In questo momento gli investimenti che danno più reddito sono la fabbrica di armi e gli anticoncezionali. Le une distruggono la vita, gli altri impediscono la vita. E questi sono gli investimenti che danno più reddito. Che futuro ci attende? È brutto.
Nonostante tante parole e tanto impegno, non si arriva a invertire la rotta. Come mai? Perché non si riesce a frenare questa emorragia di vita?
La questione è complessa, ma questo non può e non deve diventare un alibi per non affrontarla. Serve lungimiranza, che è la seconda parola-chiave. A livello istituzionale, urgono politiche efficaci, scelte coraggiose, concrete e di lungo termine, per seminare oggi affinché i figli possano raccogliere domani. C’è bisogno di un impegno maggiore da parte di tutti i governi, perché le giovani generazioni vengano messe nelle condizioni di poter realizzare i propri legittimi sogni. Si tratta di attuare serie ed efficaci scelte in favore della famiglia. Ad esempio, porre una madre nella condizione di non dover scegliere tra lavoro e cura dei figli; oppure liberare tante giovani coppie dalla zavorra della precarietà occupazionale e dell’impossibilità di acquistare una casa.
È poi importante promuovere, a livello sociale, una cultura della generosità e della solidarietà intergenerazionale, per rivedere abitudini e stili di vita, rinunciando a ciò che è superfluo allo scopo di dare ai più giovani una speranza per il domani, come avviene in tante famiglie. Non dimentichiamolo: il futuro di figli e nipoti si costruisce anche con le schiene doloranti per anni di fatica e con i sacrifici nascosti di genitori e nonni, nel cui abbraccio c’è il dono silenzioso e discreto del lavoro di una vita intera. E d’altra parte, il riconoscimento e la gratitudine verso di loro da parte di chi cresce sono la sana risposta che, come l’acqua unita al cemento, rende solida e forte la società. Questi sono i valori da sostenere, questa è la cultura da diffondere, se vogliamo avere un domani.
Terza parola: coraggio. E qui mi rivolgo particolarmente ai giovani. So che per molti di voi il futuro può apparire inquietante, e che tra denatalità, guerre, pandemie e mutamenti climatici non è facile mantenere viva la speranza. Ma non arrendetevi, abbiate fiducia, perchè il domani non è qualcosa di ineluttabile: lo costruiamo insieme, e in questo “insieme” prima di tutto troviamo il Signore. È Lui che, nel Vangelo, ci insegna quel “ma io vi dico” che cambia le cose (cfr Mt 5,38-48): un “ma” che profuma di salvezza, che prepara un “fuori schema”, una rottura. Facciamo nostro questo “ma”, tutti, qui e ora. Non rassegniamoci a un copione già scritto da altri, mettiamoci a remare per invertire la rotta, anche a costo di andare controcorrente! Come fanno le mamme e i papà della Fondazione per la Natalità, che ogni anno organizzano questo evento, questo “cantiere di speranza” che ci aiuta a pensare, e che cresce, coinvolgendo sempre più il mondo della politica, delle imprese, delle banche, dello sport, dello spettacolo e del giornalismo.
Ma il futuro non si costruisce solo facendo figli. Manca un’altra parte molto importante: i nonni. Oggi c’è una cultura che nasconde i nonni, li manda alla casa di riposo. Adesso è cambiata un po’ per la pensione – purtoppo è così –, ma la tendenza è quella: scartare i nonni. Mi viene in mente una storia interessante. C’era una bella famiglia, dove il nonno viveva con loro. Ma con il tempo in nonno è invecchiato, e poi quando mangiava si sporcava… Allora il papà ha fatto costruire un tavolino, in cucina, perché ci mangiasse il nonno, così loro potevano invitare gente. Un giorno il papà torna a casa e trova uno dei bambini piccoli che lavorava con il legno. “Cosa stai facendo?” – “Un tavolino, papà” – “Ma perché?”- “Per te, per quando sarai vecchio”. Per favore, non dimenticare i nonni! Quando io, nell’altra diocesi, visitavo tanto le case di riposo, domandavo ai nonni – penso a un caso –: “Quanti figli ha?” - “Tanti” - “Ah, bene. E vengono a trovarla?” - “Sì sì, vengono sempre”. Poi, all’uscita, l’infermiere mi diceva: “Non vengono mai”. I nonni soli. I nonni scartati. Questo è un suicidio culturale! Il futuro lo fanno i giovani e i vecchi insieme; il coraggio e la memoria, insieme. Per favore, parlando di natalità, che è il futuro, parliamo anche dei nonni, che non sono il passato: aiutano il futuro. Per favore, abbiamo figli, tanti, ma abbiamo anche cura dei nonni! È molto importante.
Cari amici, vi ringrazio per quello che fate, grazie a tutti voi. Grazie a te per il tuo coraggio. Vi sono vicino e vi accompagno con la mia preghiera. E per favore, vi chiedo di non dimenticarvi di pregare per me. Ma pregate a favore, non contro! Grazie.
Questo “a favore e non contro” lo dico perché una volta, stavo finendo un’udienza e lì a venti metri c’era una signora, una vecchietta, piccolina, occhi bellissimi. Ha cominciato a dire: “Vieni, vieni!”. Simpatica. Mi sono avvicinato: “Signora come si chiama?” – mi ha detto il nome – “E quanti anni ha?” – “87” – “Ma cosa fa, cosa mangia per essere così forte?” – “Mangio i ravioli, li faccio io”. E mi ha dato la ricetta dei ravioli. E poi le ho detto: “Signora, per favore, preghi per me” – “Lo faccio tutti i giorni”. E io per scherzare le dissi: “Ma preghi a favore, non contro!”. E la vecchietta, sorridendo, mi disse: “Stia attento, Padre! Contro pregano lì dentro”. Furba! Un po’ anticlericale. E per favore: a favore, non contro, a favore.
[1] cfr S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis (1987), 36-37; Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1869.
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