Alessandro D'Avenia
Il cigno, l’infermiera e lo spazzino
Corriere della Sera, 26 febbraio 2024
“Ho finito di leggere Ciò che inferno non è, ma nella mia vita ultimamente ho difficoltà a vedere, nell’inferno, ciò che inferno non è e questo è pericoloso per me, che sono mamma di tre figli. Non ho vissuto una vita ovattata, il contesto in cui sono cresciuta è equivalente al degrado del quartiere descritto nel libro, ma il sorriso e la speranza, che non mi sono mai mancati, ora invece, nelle brutture odierne, vacillano, facendomi pensare che forse non è stata la migliore delle idee mettere a questo mondo marcio i miei ancora ignari figli. Come ritrovare il coraggio e la “leggerezza attenta” di cercare il bello anche dove non sembra esserci?”.
Questo messaggio ricevuto di recente mi ha costretto a chiedermi se esiste un metodo per trovare gioia dove non sembra che ci sia, se ci sia ancora la possibilità di scorgere un cigno in mezzo alla polvere e all’immondizia della città, come racconta Charles Baudelaire in una delle sue poesie più belle. Siamo sicuri che questo mondo sia così marcio o più marcio di quello di prima? E se invece di aspettare l’apparizione del cigno fossimo noi a poterlo far apparire? Esiste un metodo per sperare anche nella disperazione amplificata da una comunicazione che, drogata dai click, predilige la sovraesposizione del marcio e crea un effetto depressivo? Provo a rispondere con due storie vere in cui mi sono imbattuto di recente.
La prima è quella di Cicely Saunders, una ragazza londinese avviata agli studi di economia a Oxford, che, durante la Seconda Guerra mondiale, incapace di stare a guardare, si arruola come infermiera per curare i feriti che giungono dal fronte. Trova l’inferno: centinaia di coetanei che muoiono tra atroci sofferenze. Invece di scoraggiarsi di fronte all’impossibilità di salvarli, comincia a studiare la situazione e scopre che per lenire la sofferenza dei moribondi non bastano le cure fisiche, bisogna curare la loro disperazione. Farà di questo la ragione della sua esistenza: trovata la sua vera vocazione, comincerà a studiare medicina a 33 anni e aprirà nel 1967 il primo Hospice moderno, dove non si va a morire ma a vivere bene sino all’ultimo istante. Le cure palliative create dalla dottoressa Saunders sono oggi un punto di riferimento a livello mondiale per la cura dei malati terminali. Ho conosciuto la storia grazie al recente romanzo di Emmanuel Exitu, intitolato Di cosa è fatta la speranza. È proprio in mezzo all’inferno che Saunders inventa il nuovo: “La speranza è il modo peggiore di affrontare la vita. Naturalmente se si escludono tutti gli altri, che sono molto peggio”. La frase che apre il libro è paradossale quanto vera. La speranza non è una tecnica di suggestione per vedere le cose come non sono, anzi è la capacità di stare talmente dentro e di fronte al presente da innamorarsene. In questo senso la speranza “è il modo peggiore di affrontare la vita” perché è impegnativa, ma “tutti gli altri sono molto peggio” perché escludono la creatività e la libertà, l’azione da protagonisti. Cicely Saunders fu visionaria perché sperava, essere visionario non significa avere visioni ma prestare attenzione fino a scorgere il possibile dove tutti vedono l’impossibile. Nel capitolo che dà il titolo al libro, l’autore elenca gli ingredienti della speranza, e sono tutte quelle cose e persone che i malati terminali hanno care e che il personale dell’hospice procura loro: da un whisky con ghiaccio tritato a un cucciolo d’elefante, perché “la speranza è fatta di cose che hanno bisogno di qualcuno che le faccia accadere”. Quindi il mio primo consiglio è essere una di quelle persone che le fanno accadere, essere visionari nel qui e ora. Altrimenti ci si consegna alla disperazione che è proprio ciò che impedisce di vedere. Se Saunders avesse pensato: prima, a casa, “ho i miei studi che m’importa di chi muore in guerra”, e dopo, in corsia, “tanto è tutto inutile” non avrebbe inventato le pratiche che oggi rendono umana anche la morte inevitabile (la morfina veniva data solo su richiesta; i parenti non erano coinvolti e aiutati ad affrontare il lutto…).

(fonte: sito dell'autore)