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mercoledì 20 marzo 2024

Don Milani, i poveri, la povertà


Don Milani, i poveri, la povertà

di Antonio Cecconi



Il signorino

Quando andava nella tenuta di Gigliola, a Montespertoli, il giovane Lorenzo Milani era “il signorino”; la proprietà conteneva la villa padronale, la fattoria e 24 poderi coltivati a mezzadria. Il tutto è stato documentato ampiamente, in una pubblicazione che è, per la gran parte, una raccolta di testimonianze riassunte dal titolo Gli anni del privilegio. ...

La decisione
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Cappellano a San Donato di Calenzano
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La scuola popolare
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Priore a Barbiana
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L’episodio
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La lettera
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Preti e povertà

Molti preti, almeno al tempo di don Milani, in molte parti d’Italia erano di estrazione popolare, soprattutto da famiglie contadine o comunque di condizioni economiche modeste.

Raccontava un vecchio parroco che l’idea iniziale di andare in seminario gli venne vedendo che il suo parroco aveva le scarpe di cuoio, mentre suo padre e molti altri uomini del paese avevano gli zoccoli di legno. Poi, in seminario, aveva capito che la vocazione era altro, però quell’idea delle scarpe se la portava dietro…

In un modo o in un altro, diventare preti voleva dire per alcuni (o per parecchi?) avanzare nella scala sociale, accedere a livelli di istruzione impossibili per molti dei propri coetanei. E, diventati parroci, condurre una vita abbastanza agiata, sicuramente al di sopra della media.

Certamente, per il “convertito” Lorenzo Milani non fu così, il suo diventare prete lo visse facendo suo, in certa misura, quello che Paolo afferma di Gesù nella lettera ai Filippesi: «non ritenne la sua condizione un privilegio… ma spogliò se stesso».

E fin dagli inizi, a San Donato di Calenzano, lo manifestava con sobrietà e austerità quasi maniacali rifiutando ogni ancorché minimo privilegio, viaggiando su una bicicletta sgangherata, dichiarando che avrebbe avuto un’automobile solo quando l’avessero avuta tutti i suoi parrocchiani…

Veramente, oltre a difendere i poveri e battersi per il loro riscatto, aveva sposato la povertà.

Un altro grande prete toscano, di una decina d’anni più vecchio di lui, don Arturo Paoli, era assai critico sul fatto che la Chiesa, mentre chiede ai suoi ministri l’impegno del celibato e la promessa di obbedienza, per la povertà lasci ciascuno libero di comportarsi come meglio crede… anche di essere ricco.

E così, senza la scelta della povertà, c’è il rischio di vivere gli altri due obblighi come tasse da pagare per far parte di un club di privilegiati. Per don Lorenzo è stato davvero – come dichiara ai suoi ragazzi sul letto di morte – «il cammello passato per la cruna dell’ago».

La testimonianza di don Bensi

«La sua capacità di annullarsi fra i poveri, fra i ragazzi e fra la gente senza nome e senza importanza. A lui è sempre bastato amare, sino alla fine, pochi ragazzi: non ha mai preteso di amare l’umanità, e lo ha scritto chiaro tante volte.

Ricordo un giorno che capitai a Barbiana senza preavviso, verso sera, quand’era già attaccato dal cancro. Lo trovai, come al solito, nella stanza che serviva da scuola. Era steso nel buio su un pagliericcio. Accanto aveva una donna, la vecchia scema del paese, e i ragazzi meno intelligenti. Erano lì tutti in silenzio, con gli occhi fissi su di me, come se stessero assaporando sino in fondo la loro sofferenza, la loro solitudine, la loro sconfitta umana. E lui era uno di loro, non diverso, non migliore: ed era già condannato a morte. Mi vennero i brividi.

Capii allora, più che in qualunque altro momento, il prezzo della sua vocazione, l’abisso del suo amore per quelli che aveva scelto e che lo avevano accettato. L’uomo che sapeva tante lingue, in grado di parlare di teologia, di filosofia, d’arte, di letteratura, d’astrologia, di matematica, di politica come pochi altri, lì, nel buio di quella stanza, accanto a quei “mostri”, fu per me, e rimane, l’immagine più eroica del cristiano e del sacerdote».[8]

La povertà, allora e ora

Faccio riferimento a due recenti articoli sul «il Tirreno» di Alessandro Volpi, docente di scienze politiche all’Università di Pisa: «Il sistema finanziario genera ricchezza sempre ai soliti noti» (13.2.24) e «Il paradiso dei super ricchi costruito con l’assenso della politica italiana» (20.2.24). Cito soltanto un dato tra i diversi presentati: poche migliaia di famiglie detengono il 35% della ricchezza italiana e il 50% di tale ricchezza è di natura finanziaria, su cui tali famiglie non pagano pressoché imposte.

E abbiamo tutti ben presenti i dati sulla crescita della povertà – non solo relativa, ma anche assoluta – periodicamente forniti sia dalla Banca d’Italia, sia dai rapporti di Caritas italiana e di molte Caritas diocesane. In particolare, quei dati secondo cui, se è povero un italiano su 10, lo è quasi un minore su 7; che tra le principali cause di caduta in povertà c’è la mancanza di casa e di lavoro; che un quarto delle famiglie con tre o più figli è sotto la linea della povertà.

Mi faccio una domanda: come reagirebbe oggi a tutto questo don Lorenzo? Forse citerebbe il Salmo 49: «l’uomo nella prosperità non comprende, è come le bestie che muoiono». Perché quei ragazzi, che egli voleva far diventare da bestie uomini e da uomini santi, di nuovo rischiano di essere condannati a rimanere bestie.

Don Lorenzo Milani muore nel 1967. La Caritas italiana viene costituita dalla CEI, per ferma volontà di Paolo VI, nel 1972, «in vista dello sviluppo integrale dell’uomo, della giustizia sociale e della pace, con particolare attenzione agli ultimi e con prevalente funzione pedagogica» (art. 1 dello Statuto).

Ripercorrere la vita del prete fiorentino e le scelte qualificanti del suo ministero, sempre schierato dalla parte degli ultimi, fa di lui il profeta di un compito che pochi anni dopo tutta la Chiesa italiana avrebbe assunto, dando vita a questo suo organismo pastorale.