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lunedì 14 dicembre 2020

Avviso di sfratto - Seconda predica di Avvento del Cardinale Raniero Cantalamessa

La seconda predica di Avvento del Cardinale Raniero Cantalamessa 
alla presenza del Pontefice


Avviso di sfratto


«Una persona ha ricevuto lo sfratto e deve lasciare tra breve la sua abitazione. Fortunatamente, gli si presenta la possibilità di avere subito una nuova casa. Ma lui che fa? Spende tutto il suo denaro per rimodernare e abbellire la casa che deve lasciare, anziché arredare quella in cui deve andare! Non sarebbe da stolto? Ora noi siamo tutti degli “sfrattati” in questo mondo e somigliamo a quell’uomo stolto se pensiamo solo ad abbellire la nostra casa terrena, senza preoccuparci di fare opere buone che ci seguiranno dopo la morte». È andato dritto al sodo il cardinale Raniero Cantalamessa nella seconda predica di Avvento tenuta alle 9 di venerdì 11 dicembre, nell’aula Paolo VI, alla presenza di Papa Francesco. Quest’anno sono stati invitati a partecipare alle meditazioni anche i dipendenti della Curia romana e del Vicariato di Roma.

Dopo aver riflettuto, venerdì scorso, sul fatto che «siamo tutti mortali», il predicatore della Casa Pontificia ha voluto rimarcare oggi che «la vita non finisce con la morte» — «Vi annunciamo la vita» (1 Giovanni 1, 2) il tema della sua meditazione — mentre venerdì prossimo ricorderà che non siamo soli sulla «piccola barca» della terra.

La pandemia «ha riportato a galla la precarietà e la transitorietà di tutte le cose» ha affermato il porporato. «Tutto passa: ricchezza, salute, bellezza, forza fisica...». Insomma, «di colpo tutto quello che davamo per scontato si è rivelato fragile. La crisi planetaria che stiamo vivendo può essere l’occasione per riscoprire con sollievo che c’è, nonostante tutto, un punto fermo su cui fondare la nostra esistenza terrena».

Ecco che «dobbiamo riscoprire la fede in un aldilà della vita» ha rilanciato. Ed «è questo uno dei grandi contributi che le religioni possono dare insieme allo sforzo per creare un mondo migliore e più fraterno». Si tratta di «capire che siamo tutti compagni di viaggio, in cammino verso una patria comune, dove non esistono distinzioni di razza o di nazione. Non abbiamo in comune solo il cammino, ma anche la meta. Con concetti e in contesti assai diversi, questa è una verità comune a tutte le grandi religioni, almeno a quelle che credono in un Dio personale.

Ma «per i cristiani — ha ricordato il predicatore — la fede nella vita eterna non si basa su discutibili argomenti filosofici circa l’immortalità dell’anima. Si basa su un fatto preciso, la risurrezione di Cristo». Dunque «per noi cristiani la vita eterna non è una categoria astratta, è piuttosto una persona». Ma, si è chiesto il predicatore, «che è successo alla verità cristiana della vita eterna?». In un tempo come questo, «dominato dalla fisica e dalla cosmologia — ha osservato — l’ateismo si esprime soprattutto come negazione dell’esistenza di un creatore del mondo», mentre «nel secolo XIX si è espresso di preferenza nella negazione di un aldilà».

Sulla parola «eternità» sono caduti «l’oblio e il silenzio». E «la secolarizzazione ha fatto il resto — ha affermato Cantalamessa — al punto che appare addirittura sconveniente che si parli ancora di eternità fra persone colte e al passo con i tempi». In realtà, «la secolarizzazione è un fenomeno complesso e ambivalente. Può indicare l’autonomia delle realtà terrene e la separazione tra regno di Dio e regno di Cesare e, in questo senso, trova nel Vangelo una delle sue radici più profonde». Ma «secolarizzazione può, però, indicare anche tutto un insieme di atteggiamenti ostili alla religione e alla fede. In questo senso si preferisce usare il termine di secolarismo».

«Tutto questo — secondo il cardinale — ha avuto un chiaro contraccolpo sulla fede dei credenti, che si è fatta, su questo punto, timida e reticente». Quando «abbiamo sentito — è stata la sua domanda — l’ultima predica sulla vita eterna?». Magari si continua a recitare nel Credo: «Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà»; ma lo si fa senza dare troppo peso a queste parole.

«Caduto l’orizzonte dell’eternità — ha proseguito — la sofferenza umana appare doppiamente e irrimediabilmente assurda». In questa prospettiva la fede «costituisce una delle condizioni di possibilità dell’evangelizzazione. L’annuncio della vita eterna costituisce la forza e il mordente della predicazione cristiana». È stato così «nella primissima evangelizzazione cristiana». E «nell’annunciare la vita eterna — ha suggerito il predicatore affidandosi anche al pensiero di Miguel de Unamuno — noi possiamo far leva, oltre che sulla nostra fede, anche sulla corrispondenza di essa con il desiderio più profondo del cuore umano. Noi siamo infatti esseri finiti capaci di infinito, esseri mortali con un innato anelito all’immortalità».

«L’affievolirsi dell’idea di eternità agisce sui credenti — ha affermato il cardinale — diminuendo la capacità di affrontare con coraggio la sofferenza e le prove della vita. Dobbiamo ritrovare un po’ della fede di san Bernardo e di sant’Ignazio di Loyola, che in ogni situazione e davanti a ogni ostacolo, dicevano: quid hoc ad aeternitatem? — che è questo di fronte all’eternità?».

«Quando smarriamo la misura dell’eternità — ha aggiunto — le cose e le sofferenze terrene gettano facilmente la nostra anima a terra. Tutto ci sembra troppo pesante, eccessivo». Ma «in che consisterà la vita eterna e che faremo tutto il tempo in cielo?» si è chiesto il cardinale. «Se è necessario balbettare qualche cosa — è stata la sua risposta — diremo che vivremo immersi nell’oceano senza rive e senza fondo dell’amore trinitario».

Il predicatore non ha mancato di «dissipare un dubbio che pesa sulla credenza nella vita eterna: per il credente, l’eternità non è solo una promessa e una speranza, o, come pensava Marx, un riversare in cielo le attese deluse della terra. Essa è presenza ed esperienza. Con Cristo, Verbo incarnato, l’eternità ha fatto irruzione nel tempo. Ne facciamo l’esperienza ogni volta che facciamo un vero atto di fede in Cristo, che riceviamo la Comunione, che ascoltiamo il Vangelo». E «questa presenza dell’eternità nel tempo si chiama lo Spirito Santo».

In sostanza, «tra la vita di fede nel tempo e la vita eterna c’è un rapporto analogo a quello che esiste tra la vita dell’embrione nel seno materno e quella del bambino venuto alla luce»: la Chiesa «dovrebbe aiutare gli uomini a prendere coscienza di questo loro anelito inconfessato e a volte persino ridicolizzato». E, ha insistito, «dobbiamo assolutamente smentire anche l’accusa da cui è partito il sospetto moderno secondo cui l’attesa dell’eternità distoglie dall’impegno per la terra e la cura del creato. Prima che le società moderne si assumessero il compito di promuovere salute e cultura, di migliorare coltivazioni e condizioni di vita, chi ha portato avanti questi compiti più e meglio dei monaci che vivevano di fede nella vita eterna?».

Del resto, anche il Cantico delle creature di Francesco d’Assisi «è nato da un sussulto di fede nella vita eterna», perché, appunto, «il pensiero della vita eterna non gli aveva ispirato il disprezzo di questo mondo e delle creature, ma un entusiasmo e una gratitudine ancora più grande e gli aveva reso più sopportabile il dolore».

«La nostra meditazione sull’eternità — ha concluso il predicatore — non ci esime certo dallo sperimentare con tutti la la durezza della prova che stiamo vivendo; dovrebbe però almeno aiutare noi credenti a non essere sopraffatti e a essere capaci di infondere coraggio e speranza anche in chi non ha il conforto della fede».

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