Presepe e messa della notte:
la trasgressione del “prima gli ultimi”
di Andrea Grillo
Pubblicato il 13 dicembre 2020 nel blog: Come se non
Ogni anno, all’avvicinarsi del Natale, è inevitabile che ci sia chi “usa” il presepe per interessi di bottega. Bottega politica e bottega commerciale hanno tutto l’interesse a “ficcare nella mangiatoia” prodotti da vendere o autorevolezze da vantare. Quest’anno la triste contingenza pandemica ha rincarato la dose, aggiungendo al presepe la “messa di mezzanotte”. Così, in un empito di martirio di facciata, per alcuni è diventata una questione di principio, non solo la “difesa interessata del presepe”, ma anche la pretesa di celebrare la messa della notte nel cuore del “coprifuoco”, con irresponsabile aggiramento di ogni divieto.
Ora, in questo contesto, quando la polemica diventa vuota e formale, possiamo trovare il paradosso per cui alcuni soggetti con rilevanza politica ed ecclesiale, ma senza vero rapporto con la fede, la cui sensibilità verso lo straniero e il bisognoso è da tempo proverbiale, diventino i “difensori del presepe” e della “messa della mezzanotte”, pretendendo di far passare i pastori ragionevoli e i cristiani sensibili come “nemici del popolo”. Dimenticando la emergenza sanitaria e la logica della fede, parlano persino di “diritto agli affetti”. Ma quando riduci il presepe o la messa di mezzanotte ad un “affetto”, ne hai già perso il senso e il significato. Li rendi pronti per essere il centro di uno “spot pubblicitario”, non di un atto di fede. Presepe e messa della notte sono atti scandalosi, non affettuosi. Per questo non si prestano agli spot dei panettoni o dei governatori, ma suscitano conversione e trasgressione. Proviamo a capire perché.
La questione decisiva, in tutto questo, non è l’affetto, ma ciò che può essere chiamato “effetto presepe”. Vorrei provare a spiegarlo molto brevemente. In tutte le grandi tradizioni, infatti, i passaggi decisivi – nel nostro caso di cattolici, il Natale e la Pasqua – diventano “luoghi di riconoscimento”, non solo religioso, ma culturale e sociale. “Fare il presepe” a Natale, e “visitare i sepolcri” a Pasqua si trasformano in luoghi di identità. Proprio in questo passaggio, le tradizioni si mettono a rischio, perché concentrano in un punto tutti i “messaggi” e proprio per questo “sovraccarico” rischiano di perderne il senso. Il presepe e il Crocifisso diventano, così, meri simboli di identità, in cui la comunità si identifica “contro qualcuno”, contraddicendo in modo clamoroso il significato del simbolo stesso.
Il presepe, in modo esemplare, e la messa della notte, che annuncia il “segno” del bambino in una mangiatoia, costituiscono un caso tipico di questa “tentazione”. Presepe significa, in latino, “mangiatoia” e costituisce la “versione di Luca” del mostrarsi del Salvatore. In lui Dio si rivela ai pastori irregolari, proscritti, emarginati, moralmente sospetti, non ai buoni credenti regolari del tempo. La tensione, in quel testo di Luca, è tra la grandezza del Signore e la piccolezza umana che può riconoscerlo solo nella irregolarità marginale dei pastori. Nella versione di Matteo, che invece si ascolta nella messa vigiliare, la dose è ancora rincarata: non vi è mangiatoia, non ci sono pastori, mentre la tensione è tra la stella e i magi che la seguono, nella loro condizione di stranieri, con la ostilità viscerale dei residenti.
Il nostro “presepe”, mescolando tutti questi messaggi, accumulandoli in un’unica scena, e aggiungendovi anche frammenti tratti da altri testi apocrifi, rischia di non aumentare, ma di diminuire la forza della tradizione, riducendola a “soprammobile” borghese. Il presepe significa che ultimi, stranieri e irregolari riconoscono Gesù, mentre Re, Governatori, Ministri e residenti regolari cercano di ucciderlo. Esattamente come, a Pasqua, sanno riconoscere Gesù una donna dai molti mariti, un disabile grave come il cieco nato e un cadavere come Lazzaro, mentre i potenti lo uccidono senza pietà. Queste sono le categorie privilegiate dalla Chiesa! Per questo celebrare la messa di mezzanotte, fare il presepe è una “grande trasgressione”, un capovolgimento, un rito nel senso più alto e più forte del termine. Questa logica simbolica merita rispetto e cura, perché rivela la trama segreta del mondo e della cultura.
Che cosa dovremmo dire, allora, di chi volesse cacciare gli stranieri e gli uomini crocifissi dall’Italia e volesse che in ogni casa e in ogni ufficio ci fosse il crocifisso e il presepe come soprammobili? Questo è semplicemente un uso ipocrita dei simboli. Delle due l’una: o riempiamo di simboli natalizi e pasquali una terra che sappia dimostrarsi accogliente e non indifferente. O scegliamo di cacciare chi è senza casa e tutti i crocifissi della terra, ma, almeno per un minimo di pudore, cerchiamo di arrossire e di provare vergogna davanti ai simboli di ciò che non accettiamo e che vogliamo soltanto combattere. Una religione che protegga la indifferenza e la soperchieria è un mostro che non di rado si trova a suo agio in cuori affettuosi. E’ ovvio che, per chi gioca solo su odio e disprezzo, anche il presepe e il crocifisso possono diventare non strumenti simbolici di comunione, ma strumenti diabolici di disprezzo. Ma non rinunciare alle nostre tradizioni significa anzitutto non piegarle ad un uso distorto. Anche nel tempo del “presidio sanitario”, tra le cose più degne di ascolto, in condizioni di rispetto del “bene comune”, vi è la trasgressione del presepe. Con la sua immediatezza, fa eco alle parole con cui Maria loda Dio nel Magnificat, quando dice: “Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote”. Queste sono le parole della Immacolata e della Assunta, della Annunziata e della Addolorata. Questa è la condizione del presepe e della messa della notte: una riconsiderazione “marginale” della vita e delle sue priorità, in un cuore e in un corpo che dice “l’anima mia magnifica il Signore”.
Di questa grande trasgressione vive il mistero del Dio che dirige i nostri passi sulla via della pace: per annunciare questo Dio si può e si deve celebrare il Natale. Ma solo a condizione di lasciar parlare, nella loro nudità elementare, le sorprendenti parole forti della Scrittura e le disarmanti azioni trasgressive del rito, nel quale, in nome di quel “segno del bambino in una mangiatoia” possiamo condividere scandalosamente lo stesso pane e lo stesso calice. Vivere la comunione tra diversi, accogliendoci reciprocamente grazie a un Dio che, nascendo ai margini e tra emarginati, “ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore”.