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giovedì 3 dicembre 2020

Intervista al cardinale Cantalamessa sulle prediche di Avvento che iniziano il 4 dicembre - Quel pennello che può salvarci dal baratro


Intervista al cardinale Cantalamessa sulle prediche di Avvento che iniziano il 4 dicembre

Quel pennello che può salvarci dal baratro


Nel tempo di Quaresima le prediche vennero tenute dal cappuccino Raniero Cantalamessa — oggi cardinale — a porte chiuse a causa della pandemia da covid-19. In questo Avvento la situazione sanitaria è un po’ cambiata e permette lo svolgimento in uno spazio ampio come quello dell’Aula Paolo VI, dove è garantito un opportuno distanziamento tra i partecipanti. Così avrà inizio in Vaticano venerdì 4 dicembre — per poi proseguire l’11 e il 18 — il ciclo di meditazioni tenute dal predicatore della Casa pontificia sul tema «Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore (Salmo 90, 12)». E proprio la pandemia sarà un’occasione per riflettere su alcune realtà spirituali centrali nella vita del cristiano, come spiega il porporato in questa intervista a «L’Osservatore Romano».


Perché la scelta di questo tema per le prediche?

Si hanno molte occasioni per riflettere su ciò che la pandemia ci sta dicendo dal punto di vista sociale e pastorale. Ho voluto approfittare della predicazione di Avvento per riflettere su ciò che essa ci ricorda e ci costringe a meditare dal punto di vista spirituale: la caducità e precarietà della vita terrena, la certezza di fede nella vita eterna, la consolazione di sapere che non siamo soli in questa tempesta che si è abbattuta sul mondo, perché — come ricorderemo a Natale — «il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi». Nel memorabile momento straordinario di preghiera del 27 marzo scorso Papa Francesco fece un confronto tra la nostra situazione attuale e quella degli apostoli sul lago di Tiberiade in tempesta. Non dobbiamo commettere la stessa mancanza di fede che Gesù rimproverò agli apostoli in quella occasione, e cioè dubitare che a Dio importi di noi, o pensare che possa affondare la “barca” che porta a bordo il Figlio di Dio.

Quanto la pandemia può influenzare il nostro rapporto con Dio?

Il filosofo Blaise Pascal, nella sua ultima infermità, scrisse un libro che ha aiutato tante persone. È intitolato Il buon uso delle malattie. Per noi si tratta di fare buon uso di questa malattia globale che è la pandemia. Accanto, o al di sotto, degli innumerevoli e gravissimi disagi che essa sta comportando a tutti i livelli, ci sono dei frutti positivi che non siamo pronti a riconoscere mentre ci siamo dentro, ma che forse la generazione futura potrà riconoscere. «In un mondo malato — diceva Papa Francesco nell’occasione che ho ricordato — abbiamo pensato di poter rimanere sani». Non è già un frutto buono scoprire che siamo malati, che la società che abbiamo costruito è malata? L’enciclica Fratelli tutti contiene la diagnosi dei principali di questi mali, ma non si ferma alla diagnosi, addita anche la via per uscirne. Ripeto, non sarà su di essi che mi soffermerò nelle prediche — non ho alcuna competenza per farlo — ma piuttosto su alcuni mali spirituali che possono attaccare facilmente anche noi credenti e figli della Chiesa: dimenticare che «non abbiamo quaggiù dimora stabile» (Ebrei 13, 14), che non dobbiamo attaccarci a quelle che l’apostolo chiama «le cose della terra» (Colossesi 3, 2): denaro, prestigio, carriera...

Nelle nostre società si è perduta la percezione dei “Novissimi”: non servono più?

Le tre meditazioni di Avvento, soprattutto la seconda, vorrebbero rispondere proprio a questo bisogno che abbiamo di tener vivi i “Novissimi”. Dimenticarli, sarebbe come se uno sta viaggiando, ma non sa dove deve andare e dove sta andando. A ogni messa proclamiamo che siamo «in attesa della sua venuta». Lo siamo davvero? La pandemia è una occasione per ricordarcelo.

Come leggere i piani di Dio anche negli avvenimenti drammatici?

Mi permetto di ripetere qui una riflessione che svolsi nella predica del Venerdì Santo scorso, celebrato a porte chiuse in San Pietro, nel momento forse più duro della pandemia. Partii da un episodio. Mentre affrescava la cattedrale di San Paolo a Londra, il pittore James Thornhill, a un certo punto, fu preso da tanto entusiasmo per un suo affresco che, retrocedendo per vederlo meglio, non si accorgeva che stava per precipitare nel vuoto dall’impalcatura. Un assistente, inorridito, capì che un grido di richiamo avrebbe solo accelerato il disastro. Senza pensarci due volte, intinse un pennello nel colore e lo scaraventò in mezzo all’affresco. Il maestro, esterrefatto, diede un balzo in avanti. La sua opera era compromessa, ma lui era salvo. Trassi lo spunto da questo episodio per dire che così fa a volte Dio con noi. Sconvolge i nostri progetti e la nostra quiete, per salvarci dal baratro che non vediamo. Non è Dio che, con il coronavirus, ha scaraventato il pennello sull’affresco della nostra orgogliosa civiltà tecnologica. Dio è alleato nostro, non del virus! «Essendo supremamente buono — ha scritto sant’Agostino — Dio non permetterebbe mai che un qualsiasi male esistesse nelle sue opere, se non fosse sufficientemente potente e buono, da trarre dal male stesso il bene» (Enchiridion, 11, 3).

L’umanità sarà quella di prima dopo questa pandemia?

Speriamo di no! Ma non dobbiamo farci troppe illusioni. Quelli della mia età hanno vissuto una parabola che vorremmo non si ripetesse. Abbiamo visto quello che è successo dopo la seconda guerra mondiale. Il mondo — l’Europa in particolare — inorridito di fronte all’accaduto, si è dato da fare per mettere in piedi organismi di unità e di solidarietà, ma un po’ alla volta le nefaste radici del nazionalismo e del razzismo sono rispuntate e stanno minando quello che di buono si era faticosamente costruito, a partire, appunto, dall’Europa unita. Anche questo è bene messo in luce nell’enciclica Fratelli tutti. Speriamo che non sia anch’essa «una voce che grida nel deserto», come quella di Giovanni Battista che ascolteremo durante l’Avvento.