Colloquio (a distanza) con il vaticanista Luigi Accattoli,
ricoverato per covid-19
Cerco fatti di Vangelo
«Cerco fatti di Vangelo». Nel 1995 Luigi Accattoli aveva titolato così un suo inedito libro-inchiesta: notizie e storie di una fede dal basso, testimonianze di un’umanità inattesa in luoghi dove ti aspetti di trovare solo dolore o risentimento. Un’indagine in controtendenza rispetto ad un vaticanismo interessato solo a “sussurri e grida” dei sacri palazzi. Sono passati 25 anni ma da allora Accattoli non ha mai smesso di cercare “fatti di Vangelo” nella società. Dall’inizio del lockdown di febbraio ha raccolto nel suo blog una sessantina di “storie della pandemia”. Racconti ascoltati alla tv, letti sui giornali, scovati sui social o scoperti di persona; con un unico denominatore comune: brandelli di umanità in mezzo alla tragedia della malattia, storie di solidarietà che hanno per protagonisti persone malate di covid-19, medici e personale sanitario, volontari che offrono il loro tempo per lenire qualche sofferenza. Una collezione di storie che ha meritato ad Accattoli il premio dell’Ucsi Giornalismo e società. Gli sarà conferito il 19 dicembre ma difficilmente il premiato potrà essere presente alla cerimonia che si svolgerà a Verona: Luigi Accattoli, 77 anni, già vaticanista de «La Repubblica» e poi del «Corriere della sera», si è ammalato di covid e dal 29 novembre si trova ricoverato presso l’ospedale San Giovanni con una polmonite che lo costringe a letto. Con il respiro pesante e la maschera d’ossigeno ma senza perdere il buon umore. «Fino a ieri — sorride — avevo tampinato il covid da remoto con le storie di pandemia. Ma noi giornalisti di vecchia scuola appena possibile andiamo sul posto e vogliamo toccare con mano». Ogni giorno pubblica sul suo blog un diario della malattia, tutto da leggere (http://www.luigiaccattoli.it/blog/).
Con lo stile asciutto che lo ha sempre contraddistinto da cronista ci porta dentro il reparto covid, dandoci un’idea di che esperienza viva un comune malato tra quelle mura. Racconta anche, con pudore ma senza vergogna, la sua fede. Nel post datato 2 dicembre annota: «È venuto il cappellano e ho avuto di nuovo la Comunione. Ora me ne sto abbracciato al mio Signore come il bambino alla mamma che l’ha appena allattato». Luigi non può parlare, ma riesce a scrivere. Ha potuto così rispondere ad alcune nostre domande.
Hai passato mesi a cercare storie di malati di covid-19, ed ora eccoti dall’altra parte del vetro… Come stai vivendo questa condizione?
Ho vissuto questa curiosa successione dei fatti: dopo aver indagato per mesi le storie altrui — ho avviato l'inchiesta a metà marzo — ora a novembre mi sono trovato protagonista di una di tali storie e la vado svolgendo con un diario in prima persona, anche questo nel blog, che ho condotto prima da casa e poi dall’ospedale… Sono ormai tre settimane che racconto quello che temo e spero e vedo qui ogni giorno. Il primo insegnamento del coinvolgimento diretto è l’avvertenza soggettiva di quello stato di debilitazione e dipendenza dalla respirazione assistita che mi ha messo nelle condizioni di capire meglio cosa si prova con questo covid. Ciò immaginavo che potesse avvenire. La sorpresa grande, invece, rispetto a quanto avevo letto di altri, è stata di poter avere la Comunione quasi tutti i giorni in questo Reparto Pneumo covid 2 dell’Ospedale San Giovanni di Roma: Comunione che nella mia stanza riceviamo da un sacerdote “scafandrato” in tre su quattro presenti. Immagino che questa possibilità, come anche l’uso di cellulari e computer nelle stanze covid, sia una novità della seconda fase. Credo che nella prima non fosse possibile.
Leggendo il tuo diario colpisce la bella amicizia nata in particolare con uno dei tuoi compagni di stanza, un latinista, con il quale vi trovate spontaneamente a recitare preghiere nell’antica lingua della Chiesa, come l’Angelus o l’inno mariano «Sub tuum praesidium». Ma nella preghiera avete coinvolto anche altri malati…
Se mi chiedi un segno cristiano di questi giorni cattivi, eccolo. Con i quattro della stanza un giorno stavamo seguendo in diretta, al mio computer, l’Angelus del Papa. Entrano i medici e noi ovviamente ci fermiamo, metto il video in pausa. Quando i medici se ne vanno il capo del gruppo dice: «Abbiamo visto che qui pregate. Pregate anche per noi, perché possiamo reggere all’impegno che affrontiamo».
In molte storie che hai raccolto l’elemento di umanità nasce dalla fede cristiana, ma racconti anche esperienze di solidarietà che non rivendicano questa origine. C’è un insegnamento anche qui?
Io sono venuto parlando, nel blog e in articoli, in questi mesi, di “storie di pandemia come fatti di Vangelo”: ma so che non debbo mettere il segno cristiano su comportamenti che non lo rivendicano. So — proprio per aver indagato tanti casi, sessanta fino al giorno del ricovero — che chi li pone, quei comportamenti solidali, non sempre lo fa in risposta alla vocazione cristiana ma spesso lo fa più ampiamente in risposta alla vocazione d’uomo. C’è un insegnamento nel fatto che in profondo le due vocazioni s’incontrino. È anche per cercare quell’insegnamento che, accanto ai semi seminati dall’una, conviene onorare quelli dell’altra.
Grazie Luigi, anche a nome di tanti amici e colleghi, per i tuoi racconti che sono anch’essi un “fatto di Vangelo”; guarisci presto e intanto... buone preghiere in latino!
Grazie a voi! Negli ultimissimi giorni, a dire il vero, l’unità di lingua liturgica che avevamo realizzato con il mio amico latinista si è interrotta! È arrivato un libanese che è maronita, anch’egli come noi praticante e ricevente l’Eucaristia, ma pregante in arabo. Dunque, al momento la preghiera corale, che realizziamo per esempio a mezzogiorno è polifonica, come del resto sempre fu nella storia e già era ai giorni di Gesù che parlava aramaico, intendeva l’ebraico biblico, si faceva capire in greco.
(fonte: L'Osservatore Romano, articolo di Lucio Brunelli 14 dicembre 2020)