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venerdì 24 agosto 2018

Nave Diciotti - Triste, vergognoso, al limite della sopportazione

Nave Diciotti - Vergogna italiana
Triste, vergognoso, al limite della sopportazione


Ricapitoliamo. La gran parte delle 190 persone salvate in mare, a poche miglia da Lampedusa, dalla nave “Diciotti” è di origine eritrea. “Eritreo” per le regole internazionali che sono legge anche in Italia è, purtroppo, diventato sinonimo di “meritevole di protezione umanitaria rafforzata”. Non sono gli unici, gli eritrei, a trovarsi in questa condizione che nessuno si va a cercare e nella quale si precipita per sopraffazioni e persecuzioni e violenze, ma in essa ci sono certamente. E sono, appunto, loro la grande maggioranza delle persone che dal porto di Catania stanno bussando alle porte di casa nostra, italiana ed europea, e che personaggi politici che dovrebbero parlare con più responsabilità e cognizione di causa hanno osato presentare all’opinione pubblica come «palestrati» a zonzo per il Nordafrica e il Mediterraneo.

Quando parliamo di “eritrei”, ci dovrebbe venire subito alla mente l’idea di un popolo col quale l’Italia e gli italiani per motivi storici e culturali hanno un legame speciale. In realtà soprattutto negli ultimi dieci anni, un po’ per cattiva conoscenza della storia e molto per cattiva politica, la smemoratezza ostile l’ha fatta da padrona.
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Ad avviare la riparazione degli errori, e dei conseguenti procurati orrori, di quel passato recente – raccontati per mesi, in solitudine, da “Avvenire” con i lunghi e accurati reportage di Paolo Lambruschi (leggi perché la gente scappa dall'Eritrea e anche questi due articoli UNO e DUE) – è arrivata la porta sicura (e stretta) dei “corridoi umanitari” dal Corno d’Africa tenuta aperta da poco più di un anno e mezzo grazie all’intesa tra Conferenza episcopale italiana, Comunità di Sant’Egidio e Governo italiano (Leggi un articolo sui corridoi umanitari). I profughi della “Diciotti” sono sorelle e fratelli di coloro che arrivano con i “corridoi”. E sono fratelli e sorelle, lo ricordino i presunti appassionati della nostra patria e della sua storia, degli uomini inquadrati nei reparti militari coloniali degli “Ascari” (dall’arabo askar, soldato) che si sono battuti al fianco dei nostri genitori, nonni e bisnonni per decenni e decenni tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, con particolare sacrificio e speciale fedeltà. Per questo il termine “ascaro” viene usato nella nostra lingua, a volte in modo polemico soprattutto in ambito politico e parlamentare, per indicare chi dimostra una fedeltà senza esitazioni. Come quella che pretendono certi leader, da compagni di partito e magari anche dai mezzi di informazione.

Ma ricapitoliamo ancora. Dal 16 agosto, 177 degli uomini, delle donne e dei ragazzi, in massima parte eritrei, salvati in mare a poche miglia da Lampedusa sono stati bloccati – dopo il trasferimento a terra di 13 di loro in evidente pericolo – a bordo dell’imbarcazione della nostra Guardia Costiera. E così la “Diciotti” e idealmente i suoi uomini – tenuti lontani dagli (urgenti) compiti a loro affidati – condividono la stessa condizione dei profughi che hanno raccolto, e cioè quella di essere, di fatto, in ostaggio. Dal 20 agosto, poi, la “Diciotti” con il suo carico umano è costretta in porto a Catania dalla posizione politica assunta dal ministro dell’Interno e vicepremier, il leader leghista Matteo Salvini. Il 22 agosto, finalmente, Salvini ha acconsentito – dopo una duro scambio verbale col presidente della Camera Roberto Fico, intervenuto a difesa della «dignità umana» dei 177 salvati – al trasferimento a terra dei 27 minori soli ancora a bordo. Venticinque ragazzini e due ragazzine scheletrici, sopravvissuti – come attestano le terribili testimonianze raccolte da coloro che li hanno accuditi – a sofferenze inenarrabili in patria, nel cammino per il deserto d’Africa e infine in Libia dove per molti mesi (alcuni per tre anni) sono stati rinchiusi e vessati nei tristemente noti campi di detenzione (e di sfruttamento) locali.

Gli altri 150 salvati restano invece ancora confinati su un pezzo di territorio italiano (questo è una nave che batte la nostra bandiera) controllato da militari italiani, eppure trasformato in una sorta di limbo mentre da Roma si conduce un faticoso braccio di ferro con gli altri Stati dell’Unione Europea per stabilire dove e come accogliere persone che sono arrivate irregolarmente via mare, ma che – è necessario sottolinearlo – hanno diritto di veder valutata la loro richiesta di aiuto e, nella quasi totalità, hanno la prospettiva di ricevere l’asilo che sollecitano.

Il quadro è questo. Ed è triste e vergognoso, al limite della sopportazione. Nessun essere umano può essere lasciato o rigettato nel pericolo, che si tratti del mare o di “lager” altrui. A nessun essere umano può venire negato il diritto di essere guardato in faccia e di essere riconosciuto – bambino, donna, uomo – nella sua condizione reale e nella verità del suo bisogno. Le persone di cui parliamo stanno subendo l’ultima ingiustizia di una catena già troppo lunga, e la subiscono proprio nel nostro Paese e di nuovo per una deliberata azione della nostra politica (e la minuscola, qui, non basta a dirne la pochezza). Con un ministro e capopartito che li rifiuta e li irride, minacciando una crisi di governo, giocando sulla loro pelle in nome della retorica arcigna dei “porti chiusi” (mentre in realtà approdi avventurosi continuano in altri punti delle nostre coste) e arrivando a progettare di riprecipitarli tutti nell’inferno libico: come se gli inglesi o gli americani avessero brigato di rispedire in Germania o nei Paesi occupati o alleati del Terzo Reich i profughi ebrei scampati alle retate dei nazisti… Nonostante tutto, però, per ora, quest’ultima è forse l’ingiustizia relativamente meno pesante tra quelle che i profughi eritrei hanno dovuto affrontare, ma è anche la più intollerabile per chi tiene viva la consapevolezza del bene necessario e mantiene alta l’idea di civiltà che l’Italia e gli italiani han contribuito a costruire.

In conclusione. È inevitabile, e amaro, dover ripetere oggi concetti che abbiamo già dovuto annotare più volte in questa tormentata estate 2018. Visto e considerato lo svuotamento – tra pochi assensi, aperti rifiuti e maldissimulata indifferenza – del piano di “ricollocamenti” dall’Italia e dalla Grecia predisposto nel 2015 dalla Commissione europea, è legittimo e del tutto condivisibile l’obiettivo del Governo Conte di responsabilizzare l’Europa concordando una nuova e più efficace regola di accoglienza comunitaria nella Ue di richiedenti asilo ed emigranti. Una regola alla quale tutti si attengano, grandi e piccoli dell’Unione, mediterranei e nordici, non esclusi in alcun modo, ovviamente, i Paesi dell’Est ex-comunista e neo-sovranista riuniti nel Patto di Visegrad. Ma è illegittimo ed è vergognoso perseguire tale obiettivo, e forse anche altri, più spregiudicati, “usando” persone inermi prese “in ostaggio” dopo il sacrosanto intervento umanitario che le ha sottratte a un rischio acuto e imminente. Il 12 luglio, coi 67 raccolti ancora dalla “Diciotti” e portati a Trapani, fu un intervento del presidente Mattarella e del premier Conte a evitare che si innescasse una crisi umanitaria, morale e di legalità simile a quella che stiamo vivendo. Questa volta il ministro Salvini, sbagliando con ostinazione il mezzo (la messa in discussione di un’operazione condotta da nostri militari), in modo più grave il bersaglio (i profughi eritrei) e forse centrando dal suo punto vista solo i tempi (la vigilia di una manovra economica e di un autunno roventi) lavora perché la crisi esploda. Libero lui di farlo. Liberi tutti di giudicare.

Ci sono cose su cui non si può giocare nessuna partita di potere. E noi non possiamo dimenticare la strage del 3 ottobre 2013 a breve distanza dalle coste di Lampedusa, la disperata e durissima lotta col mare per salvare i salvabili, le file di bare scure e bianche, i “mai più” scanditi con emozione e solennità in quei giorni, anche se altre stragi seguirono e altre ancora incombono. È questa coscienza, o chiamatela pure anima, che non ci consente di fingere che il mondo non ci guardi e non ci riguardi, e che ciò che accade nel “mare nostro” sia solo affare “loro”.



"Minori sbarcati da Diciotti ridotti a scheletri"

Rinchiusi al buio per otto mesi, denutriti, con alle spalle periodi di detenzione in Libia lunghi anche tre anni. I 27 minori non accompagnati scesi dalla nave Diciotti, ormeggiata da lunedì al porto di Catania, hanno vissuto "orrori incredibili". Si tratta di 25 ragazzi e due ragazze di età variabile tra i 14 e i 17 anni, tutti eritrei ad eccezione di una ragazzina proveniente dalla Somalia.

"Uno di loro - racconta Giovanna Di Benedetto, portavoce di Save The Children - presentava ferite di arma da fuoco. Ci hanno raccontato di essere rimasti rinchiusi per otto mesi al buio dentro una stanza o un container, questo ancora non è chiaro. Alcuni di loro pesano appena 35 chili". Il viaggio dalle coste dell'Africa è iniziato nella notte tra il 13 e il 14 agosto. Poi la settimana trascorsa in mare a bordo della Diciotti, prima del via libera di ieri del Viminale al loro sbarco. "Prima di poter partire sono rimasti in Libia a lungo, chi un anno, chi un anno e mezzo, qualcuno ci ha detto anche per tre anni. Sono denutriti e davvero in condizioni di grande deprivazione".

Al momento del loro sbarco sulla nave della Guardia costiera sono stati intonati alcuni canti. Dopo gli accertamenti sanitari i giovani migranti sono stati trasferiti nei centri di accoglienza messi a disposizione del Comune di Catania. I 27 minori sono sbarcati nella notte, mentre restano a bordo della nave della Guardia costiera gli adulti per la maggior parte di nazionalità eritrea.

Sul caso Diciotti intervengono anche l'Unhcr, l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati e l'Oim, l'Organizzazione internazionale per le migrazioni, che esortano il governo italiano a consentire ai rifugiati e migranti salvati a bordo della nave di sbarcare. "Accogliamo con favore gli sforzi compiuti dalla Guardia Costiera italiana nel salvare la vita di questi uomini, donne e bambini, ma è necessaria una risoluzione urgente a questa impasse - dice Roland Schilling, vice rappresentante regionale dell'Unhcr a Roma -. Molti tra coloro che sono a bordo potrebbero aver bisogno di protezione internazionale e hanno già affrontato esperienze incredibilmente traumatiche". "I migranti che arrivano dalla Libia sono spesso vittime di violenze, abusi e torture, le loro vulnerabilità dovrebbero essere tempestivamente e adeguatamente identificate e affrontate", osserva Federico Soda, direttore dell'ufficio di coordinamento per il Mediterraneo dell'Oim e capo di missione per l'Italia e Malta.
(fonte: adnkronos)




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RESTIAMO UMANI!!!!