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mercoledì 22 agosto 2018

Testimone dai sotterranei della storia. Gli ottant’anni di padre Alex Zanotelli


Testimone dai sotterranei della storia. 
Gli ottant’anni di padre Alex Zanotelli

Dai “sotterranei della storia” di Korogocho al rione popolare La Sanità di Napoli per testimoniare, nell’opulento Nord come nel depredato Sud del mondo, la tenerezza di Dio che ha il volto della condivisione e dell’accoglienza. E’ questa l’ultima, tenace, scelta di padre Alex Zanotelli, una delle figure più carismatiche del cattolicesimo italiano che nei prossimi giorni compirà ottant’anni.


Missionario comboniano, dopo aver completato gli studi di teologia a Cincinnati (Usa) è partito per il Sudan. Dopo otto anni viene allontanato dal governo a causa della sua solidarietà con il popolo Nuba e della coraggiosa testimonianza cristiana. Assume la direzione della rivista Nigrizia nel 1978 e contribuisce a renderla sempre più un mensile di informazione, nel solco di una tradizione avviata nel 1883 e consolidatasi a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso. Il suo programma di lavoro è ben chiaro fin dall’inizio: “Essere al servizio dell’Africa, in particolare ‘voce dei senza voce’, per una critica radicale al sistema politico-economico del Nord del mondo che crea al Sud sempre nuova miseria e distrugge i valori africani più belli, autentici e profondi”. Per quasi dieci anni, Zanotelli ha saputo prendere posizioni precise e imporsi all’opinione pubblica italiana, affrontando i temi del commercio delle armi, della cooperazione allo sviluppo affaristica e lottizzata, dell’apartheid sudafricano. E’ stato anche tra i fondatori del movimento “Beati i costruttori di pace“, con cui ha condotto molte battaglie in nome della cultura della mondialità e per i diritti dei popoli.

Nel 1987 – su richiesta di esponenti politici e vaticani – Alex Zanotelli lascia la direzione di Nigrizia ma la sua eredità culturale, raccolta dai successivi direttori e redattori, continua a manifestarsi anche oggi. Per dodici anni ha poi vissuto come missionario a Korogocho, una delle baraccopoli che attorniano Nairobi, la capitale del Kenya. Rientrato in Italia nel 2001, con un confratello comboniano ha scelto di vivere al rione Sanità di Napoli, con l’obiettivo di sempre: “Aiutare la gente a rialzarsi, a riacquistare fiducia”. Da lì, da una delle zone a maggiore concentrazione mafiosa del Paese, padre Alex non smette di far sentire la sua voce critica: contro l’aumento delle spese militari, contro la privatizzazione dell’acqua, a sostegno di una politica di accoglienza, per un Paese più inclusivo e solidale. In nome del Vangelo.

Questo è il testo di un’intervista che gli feci alcuni anni fa, al ritorno dall’Africa.

Dodici anni di Africa non si cancellano facilmente: per te uomo e per te prete qual è l’eredità più preziosa di quell’esperienza?

Un giorno è passato da Korogocho un abate cistercense e mi ha detto “Alex ricordati che quello che ti è stato dato è grazia”. Credo veramente che ciò che ho vissuto sia stato un grande regalo che ha segnato la mia vita e che mi porterò dentro fino alla fine. Ho capito anzitutto che oggi “missione” vuol dire essere presenti là dove la gente soffre, condividendo con loro e tentando di essere un piccolo segno di speranza. Bisogna uscire dai conventi, essere con la gente ed esserlo in modo semplice, con mezzi semplici, camminare con loro. Essere cioè piccole fraternità nelle frontiere della sofferenza umana; tutto questo mi è rimasto profondamente dentro. Così come porto con me tutta l’esperienza di preghiera che nasce dalla rilettura delle Scritture fatta dai poveri. La loro straordinaria capacità di pregare la vita, di leggere e interpretare la Parola dentro le vicende del mondo, dentro la politica, l’economia. La consapevolezza della profonda ingiustizia in cui vivono uomini e donne, vecchi e bambini. Un missionario che vive e cammina con i poveri del Sud del mondo deve avere il coraggio di ritornare nel Nord e contestare un sistema che ammazza e uccide. Queste sono tutte dinamiche profonde che rimangono. Mi rimane poi la forza della spiritualità che intreccia sempre la condizione umana. Infine direi la capacità che ti danno i poveri, i baraccati, gli ultimi della storia, di credere che la vita vince nonostante tutto: la capacità – anche nei gironi della morte – di danzare la vita, di credere che la vita vince, di lottare e di darsi da fare.

Questo è stato sufficiente per attrezzarti per il ritorno?

Sì. Ho imparato che non si può pretendere di sentire questo e poi vivere una vita borghese dentro un convento. Noi abbiamo scelto di stare in una zona povera della città, prendere una stanzetta con un cucinino e arrangiarci per vivere. E’ fondamentale che le scelte fatte nel Sud del mondo diventino sempre di più le scelte degli istituti missionari, dei religiosi. Ed è inutile che ci prendiamo in giro: la nostra vita religiosa è in crisi anche perché è diventata borghese, la nostra vita qui al Nord non dice nulla se non si fanno determinate scelte che rendano concreto il Vangelo.

Non ti senti mai un prete anomalo?

No, io mi sento un prete prete. In fondo, la cosa fondamentale per noi aiutare, prima di tutto, la gente a pregare, ad accostarsi alla Parola, a celebrare, a riconoscere i segni di Dio dentro le tracce dell’umano. E’ da qui che sgorga, e non potrebbe essere diversamente, la spiritualità della vita, dell’impegno. La trasformazione del mondo nasce da un’esperienza di fede ed è in questo senso che io non mi sento assolutamente un prete anomalo. Forse l’anomalia deriva dal fatto che molta, troppa gente, associ l’idea di prete ad un uomo che sta in chiesa e compie dei riti ma è lontano dalla vita, dalla storia in cui vive.

A tuo avviso, perché succede questo? 

Credo che ci sia un deficit di ascolto della Parola. Soprattutto mi sembra che siamo ancora lontani da comunità che ascoltano la Parola. Certo, la Parola va letta a partire dai poveri, da chi fa più fatica perché, dice la Bibbia, noi crediamo in un Dio che sta dalla parte dell’oppresso. La Parola non può essere mistificata né, tantomeno, diventare uno strumento di consolazione o, peggio, di rassegnazione. E la Parola va letta nella storia, va sempre contestualizzata. Ce lo ricordava Dietrich Bonhoeffer: “Dio ha sposato questa umanità, ama questo uomo cosi com’è” e lui parlava della sua Germania nazista e di tutti i tradimenti che vedeva. Ci vuole bene ed è entrato in questa umanità, con tutte le sue contraddizioni. Per questo occorre leggere la storia alla luce della Parola. Anche l’economia, anche la politica! Troppo spesso pensiamo che basti solo la conversione personale. E’ fondamentale ma non è sufficiente.

Si dice però che quando la Chiesa fa questo si corre il rischio che poi i cristiani si dividano…

Per forza devono dividersi! Noi abbiamo tanta gente che si dice cristiana eppure parla e vive come se non lo fosse. Il messaggio di Gesù non spacca più e invece è ovvio che deve farlo: ha una sua radicalità e non possiamo pretendere che tutti ci stiano. “Avevo fame e mi avete dato da mangiare, ero forestiero e mi avete accolto…”. Occorre che il vangelo sia vissuto e tradotto. Non solo sui temi di morale sessuale ma anche su quelli economici e sociali. Occorre custodire l’indignazione, la “santa collera” la chiamava il pastore luterano Kaj Munk.

A tuo avviso, qual è il compito che vedi urgente per la Chiesa italiana di oggi?

Passare dall’essere religione civile a coscienza critica. O come scriveva Martin Luther King nelle Lettere dal carcere“smettere di essere il termometro della società e diventare invece il termostato della società”. E’ un cambiamento radicale che non è facile operare. Ci trasciniamo dietro decenni di commistione con il potere e dunque rischiamo di essere guardiani del buon senso e silenziosi di fronte alle ingiustizie.

Qual è la tua immagine di Dio?

Nella mia vita, specie in Africa, ho combattuto a lungo con il silenzio di Dio. A Korogocho spesso non mi domandavo se c’era o non c’era ma semplicemente: “dove sei?”. Spesso mi sono trovato di fronte ad un silenzio profondo, totale. Mi hanno aiutato a riscoprirlo la forza e la fiducia delle donne, spesso malate di Aids, condannate ad una morte certa. Mi hanno insegnato ad affidarmi, a credere nella vita al di là di tutto. Ho visto un Dio dal volto di donna. Vedi, nel mondo – anche se noi non vogliamo vedere – ci sono situazioni di profonda ingiustizia e di assurdità. A volte per colpa degli uomini, a volte per colpa della natura. Molto spesso però ho visto questo Dio che con un amore infinito si china su queste creature, le stringe a sé.

Anche lui trafitto dal dolore, preso da una sofferenza immensa. Perché la sua onnipotenza è nel senso dell’amore. Abbà, papà, papi diremmo oggi. Un Dio che si prende cura, che non ti molla, che ti permette di ricominciare a sperare. Ogni giorno, nonostante tutto.

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