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venerdì 24 agosto 2018

AFONI E INCAPACI DI DIRE IL VANGELO di Enzo Bianchi

AFONI E INCAPACI 
DI DIRE IL VANGELO 
di Enzo Bianchi



Siamo tutti convinti che la crisi più vistosa e determinante per il futuro delle comunità cristiane è quella riguardante la trasmissione della fede, in particolare nel nostro paese. In altre chiese europee, infatti, questa rottura della trasmissione dell’eredità cristiana è avvenuta alcuni decenni fa, mentre in Italia la stiamo vivendo attualmente ed essa si impone con un’accelerazione che richiede a tutti i cristiani di intervenire, cercando e assumendo antidoti a tale situazione. 
I dati che ci vengono forniti da diverse analisi dicono che soprattutto la generazione degli attuali quarantenni e cinquantenni si mostra incapace e afona nel trasmettere il Vangelo, la memoria di Gesù Cristo e – diciamolo con chiarezza – la speranza cristiana ai loro figli, ai millennials immersi in una giovinezza priva di orientamenti, che pure cercano e desiderano per trovare ragioni e senso alla loro vita.
Interroghiamoci dunque sulla trasmissione della fede qui e ora. Bisogna innanzitutto affermare che la trasmissione è un dovere, un compito del cristiano, perché risponde a un’esigenza espressa anche nelle Scritture: “Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai” (Dt 6,6-7). E più avanti, sempre nel Deuteronomio, la parola del Signore attesta: “Quando domani tuo figlio ti domanderà: ‘Che cosa significano queste istruzioni, queste leggi e queste norme che il Signore, nostro Dio, vi ha dato?’, tu risponderai a tuo figlio: ‘Eravamo schiavi del faraone in Egitto e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente’” (Dt 6,20-21).
Queste parole che stanno al cuore della fede degli ebrei, e ovviamente della nostra fede in Gesù Cristo, attestano che la trasmissione è un necessario insegnamento intergenerazionale, di padre in figlio, quale trasfusione di memoria per creare un orizzonte comune di fede e di speranza, quale comunicazione di un’esperienza che può costruire una comunità nel tempo, una comunione diacronica del popolo di Dio. In questo la “narrazione”, forma biblica dell’enunciazione della fede, svolge un ruolo privilegiato. Forse l’odierna crisi della trasmissione è dovuta anche all’incapacità di narrare, di fare memoria, di rinnovare un messaggio, di prestare attenzione a ciò che ci ha preceduto, perché tutte le energie sembrano esaurirsi nell’attimo fuggente, in un presente che non sa da dove è originato ed è incapace di proiettarsi nel futuro. Non possiamo neppure dimenticare che nel Nuovo Testamento la necessità della trasmissione è manifestata come possibilità di legame tra le generazioni.
Afferma più volte Paolo nelle sue lettere: “Io vi trasmetto quello che ho ricevuto” (1Cor 15,3, ecc.). L’Apostolo è consapevole non solo della necessaria continuità della fede tra antica e nuova alleanza, tra Gesù Cristo e la chiesa, ma anche che trasmettendo si genera alla fede, si agisce in modo da operare un’inclusione nel popolo in alleanza con il Signore. Dunque la trasmissione è un dovere che permette di abitare la terra e distare nella storia conservando e rinnovando l’alleanza con Dio, diventando testimoni della sua azione di misericordia e di salvezza in favore dell’intera umanità. Ma accanto alla dimensione del “dovere” si colloca anche quella del desiderio di far partecipare altri, la generazione che viene, alla buona notizia che ha “salvato” la nostra vita.
La trasmissione si basa sulla convinzione che ciò che è essenziale per noi può esserlo anche per gli altri. Dovere e desiderio convergono nel comporre la responsabilità della trasmissione. Chi ha ricevuto il Vangelo sente nel Vangelo stesso l’appello a trasmetterlo. Al riguardo vi è un’annotazione dell’intellettuale francese Régis Debray che mi pare molto significativa: “Trasmettiamo affinché ciò che viviamo, crediamo e pensiamo non muoia con noi”. Parole che dovrebbero intrigarci nel profondo, spingendoci a meditare sul fatto che la trasmissione è chiamata a confrontarsi con la nontrasmissione, la quale è fine, morte della nostra fede e della nostra speranza. Proprio per questo ci poniamo la domanda: c’è un futuro per il cristianesimo? Se le nuove generazioni sono così indifferenti alla fede, che ne sarà della speranza cristiana?
Risuona dunque in modo drammatico l’interrogativo di Gesù: “Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8). E proseguendo il ragionamento, ecco emergere la domanda decisiva: noi che, per esperienza vissuta e per età siamo costituiti quale generazione dei “traghettatori”, abbiamo la convinzione che la nostra fede è salvezza per le nostre vite? Crediamo che Gesù Cristo è il tesoro scoperto in un incontro, per il quale abbiamo lasciato e dimenticato tutto il resto, alla fine di seguire lui, avendo messo la nostra fede in lui, il salvatore delle nostre vite e il vincitore sulle nostre morti? La trasmissione deve trasportare un’esperienza e un vissuto nel tempo, attraverso (trans-) le generazioni, deve darle una continuità, un avvenire.
La trasmissione vuole impedire che la fede resti una vicenda momentanea, facendola invece diventare storia personale e di popolo. Solo con la trasmissione la fede è sottratta all’uso individualistico per trasformarsi in esperienza comune, partecipata, ecclesiale, comunitaria: la trasmissione vuole strappare la fede al momentaneo, all’episodico, per conferirle durata, continuità, comunità. Di fronte a questa crisi della trasmissione, oggi siamo spesso tentati dall’impazienza e dall’angoscia, che inducono a cercare frettolosamente “vie di salvezza”, vie di uscita dalla crisi, ricorrendo a forme di comunicazioni dominanti, cioè a quell’iper-comunicazione che maschera il fatto che oggi non si trasmette più. Si informa, si comunica, si moltiplicano le parole, si alzano i toni; così facendo, però, non si trasmette, perché la buona notizia, il Vangelo, è trasmissibile solo con la presenza di testimoni. Detto più semplicemente: di chi, al solo vederlo, presenta tratti evangelici nella sua persona, nel suo stare davanti a Dio e in mezzo agli uomini e alle donne del nostro tempo.
Trasmettere la fede non significa fare proselitismo né aumentare il numero degli appartenenti alla comunità, e neppure agire con la sicurezza di un metodo che si vuole efficace quale antidoto alla paura di scomparire: queste pretese forme di trasmissione risultano irricevibili. Infine, il cristiano non può dimenticare che la trasmissione della fede gli richiede di apprestare tutto affinché essa possa avvenire senza ostacoli e di farlo con impegno e convinzione, sapendo però che il soggetto della trasmissione della fede è sempre lo Spirito santo, è la potenza del Vangelo di Gesù Cristo.
La chiesa italiana in quest’ora è chiamata soprattutto a interrogarsi sulla trasmissione della fede, ritrovando l’essenzialità del messaggio cristiano, nell’umiltà di un ascolto dell’umanità di oggi e non più in una postura “magisteriale”, perché nessuno può fare opera di trasmissione se non si pone lui stesso per primo in ascolto. Ritrovare l’essenziale della fede significa operare una semplificazione urgente dell’annuncio cristiano, concentrarsi sull’essenziale del Vangelo, dare l’assoluto primato all’amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo morto e risorto (cf. Evangelii gaudium 35-36). Si tratta di operare affinché avvenga l’incontro con Gesù Cristo, il Cristo creduto e testimoniato dai Vangeli e dai suoi testimoni nella storia: non un Cristo proiezione dei desideri e dei progetti umani, ma colui che è l’esegesi del Padre (cf. Gv 1,18).
L’operazione è faticosa e richiede un’ablatio, un “togliere via” tante immagini ed espressioni che impediscono all’uomo e alla donna di oggi di riconoscere l’amore che vince la morte. Ciò consentirà di accedere a quella fede in Gesù Cristo che ci può portare, nella forza dello Spirito santo che abita in ogni umano, a riconoscere Dio e a far parte della comunità, la chiesa corpo di Cristo.

(Fonte: “Vita Pastorale” - agosto 2018)