Perseguire la pace
nell’80° della tragica morte
di Dietrich Bonhoeffer
per mano nazista
di Paolo Naso
Ottant’anni fa, all’alba del 9 aprile del 1945, nel campo di concentramento di Flossenbürg, fu eseguita la condanna a morte del teologo protestante Dietrich Bonhoeffer. Il progetto hitleriano del Terzo Reich era ormai crollato e mancavano solo poche settimane al crollo definitivo del nazismo e al suicidio del Führer, eppure fu proprio lui, con un ultimo e brutale colpo di coda, a ordinare l’esecuzione di Bonhoeffer.
Figlio della buona borghesia, questo teologo protestante aveva scelto con convinzione la strada del pastorato anche se, in breve, questa si espresse soprattutto nella forma della ricerca e della riflessione teologica.
In una Germania che virava verso il nazismo, ben presto Bonhoeffer aveva manifestato la sua avversione al Führer denunciando, già nel 1933, l’immoralità delle leggi antiebraiche e il pericolo costituito dall’ascesa di un leader capace di sedurre le masse con il linguaggio facile del populismo. Con il passare degli anni, la sua opposizione al nazismo si fece militante e lo avvicinò ai circoli della resistenza per la quale svolse missioni di intelligence. È ben nota la frase attribuitagli da un compagno di prigionia a cui Bonhoeffer spiegava perché, di fronte alla tragedia e al pericolo, il cristiano non potesse restare fermo e inoperoso: «Quando un pazzo lancia la sua auto sul marciapiede, io non posso, come pastore, contentarmi di sotterrare i morti e consolare le famiglie. Io devo, se mi trovo in quel posto, saltare e afferrare il conducente al suo volante».
Finito nel mirino delle autorità, Bonhoeffer avrebbe potuto riparare negli Stati Uniti e svolgere una brillante carriera in una rassicurante facoltà teologica protestate. Invece, nel 1939 scelse di tornare nella sua Germania. Era lì che la coerenza cristiana era messa a più dura prova: sinodi e vertici della Chiesa luterana si erano sostanzialmente accodati al regime e soltanto il piccolo gruppo della Chiesa confessante, ispirato dal teologo Karl Barth, aveva difeso l’indipendenza della chiesa dal regime e aveva affermato che il cristiano doveva proclamare la sua unica e assoluta fedeltà a Dio soltanto e non alle autorità terrene.
Morto prima di compiere i 40 anni, Bonhoeffer lascia una consistente mole di scritti alcuni dei quali sono ormai dei classici della teologia cristiana. Il testo più noto, anche a un pubblico non specialistico, è probabilmente Resistenza e resa, una raccolta di testi datati tra il 1943 e il 1945. Nonostante si tratti di scritti dal carcere, resta deluso il lettore che in quelle pagine cerchi le parole di un manifesto o un proclama politico. La critica teologica al nazismo e alla sua ideologia risuona in quei testi ma la sostanza è una riflessione sul cristianesimo e la sua crisi. In tempi così cambiati e così difficili, la fede cristiana non può ridursi a una religione convenzionale e consumistica, all’idea di un “Dio tappabuchi” che risponde alle domande umane che non trovano risposta. Dio non va cercato solo di fronte alla morte, ai limiti della nostra vita ma al suo centro, di fronte alle questioni che più ci interrogano e più ci sfidano. In quelle pagine Bonhoeffer polemizza con l’idea di una grazia divina “a buon mercato”, grazia senza sequela, grazia senza croce, grazia senza Gesù Cristo vivo, incarnato. La grazia di Dio impegna il cristiano, lo invita ad abbandonare le reti con le quali sta pescando per porsi nel cammino della sequela cristiana.
Sono le parole di un credente che sente il peso della storia che sta attraversando e, proprio perché crede nell’azione di Dio, sa di dovere fare la sua parte e di doversi assumere le sue responsabilità di credente “adulto”. Una fede che non è un rifugio rassicurante ma che, al contrario, ci espone alle sfide del mondo. In tempi drammatici come i primi anni ’40 del secolo scorso, questo appello alla responsabilità della propria coscienza di fronte al male condusse Bonhoeffer fino al patibolo. E non ci deve stupire che la sua lezione morale e teologica abbia ispirato il pensiero e l’azione di personaggi come Martin Luther King o Desmond Tutu e abbia riscosso tanto interesse anche in ambito cattolico.
Molto ricca resta anche la pubblicistica su questo gigante della teologia cristiana del secolo scorso e, tra i tanti titoli, segnaliamo Bonhoeffer. Un profilo, a firma del teologo protestante Fulvio Ferrario, arrivato in libreria per i tipi della Claudiana. Qualcuno però va oltre e arriva a beatificare questo credente luterano, restato fino in fondo coerente con la sua fede e la sua tradizione. È un paradosso inaccettabile. Il protestante Bonhoeffer non va santificato e posto sugli altari dell’ecumenismo ma invece capito e studiato. Egli rimane un pensatore complesso, segnato dal maggiore dei drammi del Novecento, che non può iscriversi nelle liste dei teorici del pacifismo o della resistenza armata ma che continua a interrogare ogni credente che si ponga di fronte alle scelte drammatiche della storia.
Nonostante l’epilogo e il contesto così drammatico della sua morte, Bonhoeffer ci rivolge anche un messaggio di speranza. Nel 1933, in una Europa delle dittature che scivolava verso la guerra, egli lanciò un appello che oggi risuona quanto mai attuale. Propose, infatti, un «grande concilio ecumenico della santa chiesa di Cristo» che, di fronte alle guerre passate e a quelle che incombevano, pronunciasse una parola di pace e, nel nome di Cristo, promuovesse il disarmo. Allora le chiese non raccolsero quell’appello. Possono – devono – farlo oggi, di fronte alle guerre in atto e alle altre che, con intollerabile leggerezza, vengono ipotizzate e minacciate ogni giorno.
(Fonte: “Riforma” – aprile 2025)