Nordio, i femminicidi
e quell'offesa etnica
di Nicoletta Verna
Una volta evidenziato il problema, invece di trovare una soluzione, si trova un nemico. Che è il rischio di distacco dalle responsabilità. Se questo messaggio arriva alle nuove generazioni diventa un problema educativo. Finché diremo che il femminicidio è colpa dell'altro, del nemico, del diverso, dello straniero, è impossibile sperare di risolverlo.
La dichiarazione del ministro della Giustizia Carlo Nordio sui femminicidi parte da un'affermazione
molto giusta e condivisibile: le misure di punizione e repressione a violenza avvenuta non possono
essere efficaci, se prima non si sradica il sistema di valori su cui il reato si basa. Il discorso, però,
subito si sposta sui "giovani e adulti di etnie che magari non hanno la nostra sensibilità verso le
donne". Una volta evidenziato il problema, cioè, non si trova una soluzione: si trova un nemico.
Questo è un artificio retorico ben noto, utile soprattutto quando si è di fronte a una questione molto
difficile, controversa, carica dal punto di vista emotivo. "La gente vuole che le si faccia passare la
paura" scrive Michela Murgia, "non che la si metta a discutere di soluzioni, perché la paura è di
tutti, la soluzione è del capo. Se c'è un malcontento diffuso e il capo non ha ancora una soluzione, la
migliore delle banalizzazioni strategiche è dare al popolo un nemico da incolpare". È una
scorciatoia cognitiva e dialettica facile, indolore: significa ridurre la complessità del reale,
banalizzare. Significa, ancora nelle parole di Murgia, togliere alle persone l'essenziale e lasciargli il
superfluo, permettendo loro di parlare di qualunque cosa tranne di ciò che non è necessario
sappiano per vivere bene.
L'aspetto del "trovare un nemico" su cui vale la pena riflettere non è solo l'iper-semplificazione del
discorso (la correlazione fra etnia e femminicidi è molto articolata, e ci dice sostanzialmente che i
femminicidi avvengono fra connazionali, a prescindere dalla provenienza geografica). È anche, e
forse soprattutto, il rischio di uno scollamento dalla realtà e, dunque, dalle responsabilità.
L'affermare che la questione riguarda qualcun altro ci assolve dal peso di impegnarci per trovare
soluzione. E se questo messaggio arriva alle nuove generazioni diventa un problema educativo,
poiché qualunque educazione, specie quella affettiva, dovrebbe invece muoversi da una precisa
presa di coscienza del proprio ruolo, apporto, influenza nella vita sociale.
L'enorme clamore suscitato da una serie come Adolescence si è basato anche su questo: non sposta
il fuoco su un colpevole esterno, ma resta nelle dinamiche che riconosciamo come nostre. Non ci fa
dire "può succedere", ma "può succedere a me". Parla di violenza giovanile, come centinaia di altre
opere, ma non ha la forza allegorica di Arancia meccanica o American Psycho, non si ambienta in
periferie estreme e lontane come L'Odio o City of Gods. In questi film giganteschi possiamo certo
identificarci nelle pulsioni umane dei protagonisti, ma mai nelle loro vite, abitudini, valori, azioni
quotidiane. Invece Adolescence, pur mettendo in scena un estremo e un eccesso, ci mostra che il
confine fra la normalità e l'abisso può celarsi nelle nostre case, fra le pieghe delle più familiari
consuetudini, dentro a chi crediamo di conoscere. E per questo ci sgomenta.
Parlando di femminicidi, allora, uno dei temi dovrebbe essere l'identificazione. Non nel senso,
ovviamente, che dobbiamo metterci nei panni del femminicida, né tantomeno che dobbiamo
riconoscerci in lui. Ma nel senso che ogni femminicidio è figlio di una cultura dominante, di una
storia collettiva che ci riguarda, che ci appartiene. Di un sistema patriarcale che è specchio di tutti:
di chi lo riconosce e di chi lo nega, di chi lo cavalca e di chi lo subisce. Finché diremo che è colpa
dell'altro, del nemico, del diverso, dello straniero, finché trasmetteremo ai nostri figli la rassicurante
narrazione che il problema non riguarda loro, è impossibile sperare di risolverlo