Marco Damilano
Addio Francesco,
protettore di speranza per gli ultimi del mondo
Lo avevano eletto come papa di transizione, una ventata di pulizia nel letamaio scoperchiato da Vatileaks, invece è stato un pontificato lungo che ha cambiato in profondità la chiesa. Una vita a cavallo tra due secoli, per un pontefice venuto da quasi fine del mondo: la fine del mondo vecchio, la nascita di cose nuove, è stato il suo progetto

Nella sua stanza a Santa Marta aveva poggiato sul tavolino all’ingresso una statuetta di Nostra Signora di Luján, patrona dell’Argentina, un piccolo presepe, due piccole croci di legno, composte con i frammenti delle barche dei migranti naufragate a Lampedusa e di Cutro, una rosa bianca.
«Quando ho avuto un problema nella vita ho sempre chiesto a Santa Teresa di Lisieux, santa Teresita, di aiutarmi a comprenderlo. Come segnale ricevo quasi sempre una rosa bianca». Sulla parete, sopra la poltroncina dove sedeva mentre parlava con i visitatori, una riproduzione della Crocifissione bianca di Chagall.
Accanto, sotto un’icona mariana, ai piedi del mobile, una scacchiera di pietra. Sulla parete, di fronte a lui, il ritratto stilizzato di una donna. «Lei è Esther Ballestrino», spiegava, cogliendo lo sguardo incuriosito dell’ospite. «È stata il mio capo quando ero operaio chimico in laboratorio. Era marxista, aveva fondato il partito comunista paraguaiano, è stata tra le fondatrici delle madri di Plaza de Mayo, nel 1977 fu rapita dai militari e buttata in mare con due suore francesi. Le devo molto, ho imparato quasi tutto da lei».
Un lottatore, protettore dei deboli
Dalla piccola camera al secondo piano di Santa Marta per dodici anni ha guidato la chiesa e ha guardato il mondo, segnando gli appunti e gli appuntamenti su una grande agenda accanto al letto, scrivendo messaggi a mano, con la conclusione che non mancava mai: «Il Signore ti accompagni e la Madonna ti custodisca. Tu non smettere di pregare per me».
Ha scritto da Santa Marta anche uno degli ultimi messaggi prima di andare in ospedale, mentre la voce si faceva un soffio, il respiro diventava sempre più fioco, la candela si stava spegnendo prima delle settimane di ricovero al policlinico Gemelli e la lunga degenza e le cure che sembrano averlo salvato.
La lettera inviata il 10 febbraio ai vescovi degli Stati Uniti d’America da papa Francesco, Romano Pontefice, 265° successore dell’apostolo Pietro, nella pienezza della sua autorità, come un generale che impartisce le estreme disposizioni, poche ore prima del ricovero. «Sto seguendo da vicino la grande crisi che si sta verificando negli Stati Uniti con l’avvio di un programma di deportazioni di massa. La coscienza rettamente formata non può non compiere un giudizio critico ed esprimere il suo dissenso».
Per ironia della sorte, l’ultimo incontro, il giorno di Pasqua, sarà proprio con il vicepresidente degli Stati Uniti, JD Vance, artefice di quelle politiche. Per la santa festa aveva presieduto di persona l'Urbi et Orbi a piazza San Pietro, si è affacciato dalla Loggia delle Benedizioni e ha salutato i fedeli: «Cari fratelli e sorelle, buona Pasqua».
L’invito ai vescovi americani, anzi, l’ordine per «tutti i fedeli della chiesa cattolica e per tutti gli uomini e le donne di buona volontà», «a non cedere a narrative che discriminano e causano inutili sofferenze ai nostri fratelli e sorelle migranti e rifugiati, a costruire ponti che ci avvicinino sempre più, a evitare muri di ignominia». Con una specie di profezia: «Ciò che viene costruito sul fondamento della forza e non sulla verità riguardo alla pari dignità di ogni essere umano incomincia male e finirà male».
Una invettiva manzoniana, per lui che da bambino aveva imparato a memoria pagine dei Promessi Sposi, una maledizione biblica contro le politiche di Trump. Le parole di un papa che stava concludendo una vita a cavallo tra i due secoli. Cominciata con il viaggio dei nonni emigrati italiani dal Piemonte in Argentina nel Novecento e terminata con la difesa dei migranti che passano i confini nel Duemila, tra i deparecidos della guerra sucia argentina e i torturati nei centri della Libia che non temeva di chiamare lager. Tra i conflitti mondiali del secolo scorso e la guerra mondiale a pezzi, che lui ha capito prima di tutti.
Non aveva mai smesso di essere come lo aveva immaginato Eduardo Muni Rivero che gli aveva dedicato un tango: «Ese cura luchador que ya de pibe quería, en Flores, donde vivía ser del débil, protector...». Un prete lottatore che già da ragazzo a Flores, dove viveva, voleva essere il protettore del debole. «Un prete di resistenza. Ha la testa di Evita Peron e il cuore di Che Guevara», lo ha fotografato Gustavo, tassista di Buenos Aires, attraversando la tangenziale attorno alla metropoli, che scavalca le villas miserias. Un combattente.
Quasi dalla fine del mondo
Jorge Mario Bergoglio aveva vissuto i primi vent’anni della sua vita nel quartiere di Flores, poi da gesuita a San Miguel, da arcivescovo di Buenos Aires in plaza de Mayo, di fronte alla Casa Rosada, aveva preparato la sua pensione di nuovo a Flores, in una casa di riposo per il clero. Invece era stato eletto papa il 13 marzo 2013, un mercoledì, alla fine di un pomeriggio di pioggia che aveva lavato San Pietro.
Alle sette, quando spuntò la fumata bianca il diluvio terminò, ma le sorprese per tutti noi che eravamo in piazza dovevano ancora cominciare, una dopo l’altra, ci lasciarono increduli e felici. Il primo papa non europeo, il primo papa a chiamarsi Francesco. Fu come attraversare il mare in piroscafo, fino alle lamiere colorate della Boca a Buenos Aires, come avevano fatto i suoi nonni a bordo del Giulio Cesare nel 1927, e poi tornare indietro.
Lo avevano preso «quasi dalla fine del mondo», a una età avanzata, nel momento più difficile per la chiesa. «Pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi», aveva detto Benedetto XVI, ma se n’era andato, e con le prime dimissioni di un pontefice nella storia la barca di Pietro era rimasta circondata dalle belve: gli scandali, i ricatti, i corvi, i profittatori.
Francesco non avrebbe avuto paura. Disse al mondo buonasera, semplicemente, gli bastò. Come gli aveva insegnato a fare, da piccolo, l’amatissima nonna Rosa, che in Piemonte era stata orgogliosa militante dell’Azione cattolica femminile, ostile al fascismo. «La nonna è la terra: è come un serbatoio morale, religioso e culturale». Anche lui aveva l’aria di italiano d’Argentina, distante e familiare. Chiese la benedizione al popolo, «la preghiera di voi su di me», prima di impartire la sua: il potere ribaltava il punto di vista, si spogliava del potere. E poi: «Preghiamo per tutto il mondo perché ci sia una grande fratellanza». Il fondamento del suo pontificato, l’ideale più misterioso della triade del 1789 francese, mai diventato un progetto politico a differenza di libertà e uguaglianza. Il più irrealizzabile, il più rivoluzionario, il più cristiano, quello del Magnificat e delle Beatitudini: la fraternità.
Le mosse dello scacchista
Sorrideva, ma fin dall’inizio si rivelò tenace, terragno, irremovibile, addirittura ruvido, nell’esercizio del potere, con cui, ammetteva, aveva sempre avuto qualche problema, per questo in passato si era rivolto anche alla psicanalisi.
Lo avevano eletto come papa di transizione, una ventata di pulizia nel letamaio scoperchiato da Vatileaks, invece è stato un pontificato lungo che ha cambiato in profondità la chiesa, in modo ancora indecifrabile. È stato il papa da quasi fine del mondo: la fine del mondo vecchio, la nascita di cose nuove, è stato il suo progetto. Destrutturare l’apparato, la mondanità ecclesiastica, l’autoreferenzialità che allontana il Vangelo dalle persone, con mosse astute, attacchi improvvisi. La scelta di Santa Marta, il trono papale lasciato vuoto, le sfuriate sulla Curia, le sferzate sul carrierismo dei preti che sembravano estemporanee e invece erano meditate.
«È uno scacchista silenzioso, che muove i pezzi e vede molte mosse in anticipo. Sa quando fermarsi e quando fare la sua mossa. Non si conosceranno mai le sue regole, perché non le dice a nessuno», ha detto padre Guillermo Marcò, suo collaboratore in Argentina. «Ha il genio politico di un leader carismatico e la sacralità profetica di un santo del deserto», ha osservato il biografo Austen Ivereigh.
«La tattica si introduce di sorpresa in un ordine stabilito. Essa combina elementi audacemente accostati per insinuare furtivamente qualcosa di diverso nel linguaggio di un luogo e per sorprendere il destinatario. Sfumature, lampi, crepe e intuizioni folgoranti nelle pieghe di un sistema», ha scritto Michel de Certeau, gesuita, psicanalista, il teologo che più lo ha influenzato. Sembra disegnare il metodo di governo di papa Francesco. «Hacer ruido», fare casino, aveva detto ai giovani di Rio de Janeiro nel primo viaggio all’estero.
Le sue incursioni, le discusse nomine cardinalizie e vescovili, le donne per la prima volta ai vertici della Curia, i sinodi lanciati nel futuro e mai conclusi, i viaggi nelle periferie del mondo, la porta santa aperta in Centrafrica in un viaggio pericolosissimo, o nel carcere di Rebibbia due mesi fa, l’apertura agli omosessuali e alle coppie gay, la centralità dei movimenti popolari, il rapporto diretto con le Ong piuttosto che con i governi e con due donne lontane dalla chiesa, che lo hanno accolto nella loro casa di Roma come un vecchio amico: Emma Bonino e Edith Bruck.
Popolare, non populista
«In Argentina Bergoglio non era simpatico ai nuovi movimenti popolari, né ritenuto progressista. Su di lui c’era una leggenda nera, riceveva critiche e calunnie da un certo cafetín di sinistra, culturalmente progressista ma sradicata dalla gente. La destra e le élite, al contrario, lo annoveravano tra i loro», ha ricordato l’argentino Juan Grabois, attivista dei movimenti popolari, amico del papa.

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«All’inizio del pontificato, la novità di Francesco in una Chiesa segnata dagli scandali di corruzione, sembrò bella, rinfrescante, cosmetica…. Dopo cominciò a girare un’altra leggenda nera di segno opposto: il papa comunista, alleato di tutti i populisti del pianeta. Ma né Bergoglio né Francesco sono stati allineati con una ideologia, governo o leader politico. Ha sempre parlato dei poveri, con i poveri, insieme ai poveri».
Irriducibile a una categoria, scandalo per i borghesi, di destra e di sinistra. «Un fratello mi ha detto: “Padre, lei parla molto dei poveri e poco della classe media”», ha detto nel discorso ai movimenti popolari il 20 settembre 2024. «Può essere vero, e per questo chiedo scusa. Ma non è il papa, bensì Gesù che li pone al centro nel Vangelo. È un punto fermo della nostra fede e non si può negoziare. Se tu non lo accetti, non sei cristiano».
Il popolo, il pueblo fiel, è il motore della storia, il protagonista della teologia del popolo elaborata già da cardinale alla conferenza di Aparecida nel 2007. Popolare e non populista, perché, ha scritto da papa nella Fratelli tutti, «i gruppi populisti chiusi deformano la parola “popolo”, poiché in realtà ciò di cui parlano non è un vero popolo, ma è l’abilità di attrarre consenso allo scopo di strumentalizzare politicamente la cultura del popolo, sotto qualunque segno ideologico, al servizio del proprio progetto personale e della propria permanenza al potere», mentre «un popolo vivo, dinamico e con un futuro è quello che rimane costantemente aperto a nuove sintesi assumendo in sé ciò che è diverso. Non lo fa negando se stesso, ma piuttosto con la disposizione ad essere messo in movimento e in discussione, ad essere allargato, arricchito da altri, e in tal modo può evolversi».
Il popolo è il movimento concreto nella storia, non la massa chiusa di cui parlano i populisti. Il popolo ha un corpo e ha un’anima. Così papa Francesco è entrato da primattore nel decennio che ha visto nel mondo polarizzarsi la divisione tra potere e popolo, tra establishment stremati e distanti, l’Europa vecchia, stanca, denunciata al Parlamento europeo, e un popolo abbandonato, saccheggiato dalle parole d’ordine dei partiti e dei leader sovranisti e populisti.
Ha insegnato che il tempo è superiore allo spazio: «Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi», scrive Francesco nella Evangelii Gaudium, il suo manifesto. L’unità prevale sul conflitto. La realtà è più importante dell’idea. Il tutto è superiore alla parte. «Il modello è il poliedro, che riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità».
Il più contestato
Nell’epoca della crisi della fede, con le chiese vuote in Occidente, e dell’azione politica, mentre le democrazie andavano in frantumi, nel mondo che stava tornando alla brutale riaffermazione dei rapporti di forza, papa Francesco ha rappresentato un ribaltamento di prospettiva, con l’intuito e la pratica dell’esperto del cuore umano, con le sue astuzie, le sue malizie.
Un segno di contraddizione, mentre il sistema politico, economico, mediatico, andava dalla parte opposta, ritornavano le guerre, i confini, gli stati nazionali, la religione al servizio del trono e a giustificazione delle armi, il suprematismo delle razze, il narcisismo dei capi che conduce i popoli alla catastrofe, l’indifferenza globalizzata di cui parlò a Lampedusa oggi eletta a sistema. Ripercorreva al contrario, come i grani di un rosario, i confini che i leader mondani riprendevano a recintare di filo spinato.

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Per questo è stato il papa più contestato e odiato degli ultimi secoli. Scelto come avversario dalle destre mondiali. Contrastato, odiato anche all’interno della chiesa, dove la rete social affiliata alla Curia e ai circoli iper-trumpiani, il nesso tra fondamentalisti evangelicali e cattolici integralisti di cui hanno scritto padre Antonio Spadaro e Marcelo Figueroa, ha provato a fare il passo finale: delegittimarlo, farlo passare per un falso papa, un usurpatore almeno finché era vivo Ratzinger, detronizzarlo, rovesciarlo.
Ma anche tra i progressisti, esaurito l’entusiasmo dei primi anni, il mito del papa illuminista costruito da Eugenio Scalfari con le sue lunghe interviste-conversazioni, è stato inglobato in un rumore di sottofondo, in cui il fatto religioso è sempre più marginale.
Il papa è stato banalizzato, il vecchio buono, simpatico e innocuo delle interviste televisive, o ignorato, o equivocato, magari ad arte, per le sue posizioni sull’Ucraina e sulla guerra a Gaza, con le frasi tagliate e cucite a uso e consumo della polemica, per gli scandali finanziari e sessuali mai finiti, dai leaks sulle finanze, con un clamoroso processo a carico dei giornalisti, alla cacciata del cardinale Becciu. Incompreso anche dai suoi, disorientati dall’assenza di un Concilio, da una rivoluzione che non è diventata istituzione.
La sorpresa della speranza

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Nonostante questo, Francesco non ha mai vacillato, per dodici anni è rimasto fedele alla sua missione. Immerso nel dramma del suo tempo, mai fuori, mai sopra, ma dentro, un pastore intriso del puzzo delle pecore, volto della chiesa in uscita. Ha continuato a rappresentare, anche per chi non crede, l’irruzione dell’imprevisto nella storia, l’innalzamento degli umili, la possibilità estrema che nonostante tutto nel mondo non sia già tutto scritto, tutto scontato, la convinzione che la salvezza arriva da un capovolgimento, come un bambino adagiato in una mangiatoia, nascosto ai grandi, rivelato ai piccoli, agli esclusi, ai derelitti che passano in questo mondo senza lasciare traccia.
«Una verità interiore appare solo con l’irruzione di un altro», ha scritto de Certeau, «perché si desti e si riveli, occorre sempre l’indiscrezione dello straniero o l’urto di una sorpresa. Bisogna essere sorpresi per diventare veri». Lo stupore non ha mai abbandonato papa Francesco. Anche quando è rimasto da solo.
Resterà la sua solitudine nella piazza San Pietro vuota durante il Covid. Il vecchio papa solo a pregare, davanti a un crocifisso, sotto la pioggia, «una tempesta inaspettata e furiosa», un segno fragilissimo e dunque potentissimo, umano, come il grido di Gesù abbandonato sulla croce, e trascendente.
Solo chi avrà il coraggio di affrontare una piazza vuota, il vuoto che avvelena le esistenze, il deserto di senso nella società individualista e secolarizzata, sembrava dire con quella sua presenza ferma, antica, millenaria, eppure contemporanea, potrà trovare nelle tenebre del non più umano in cui ci troviamo una rinascita.
L’ultimo gesto, meno di due mesi fa, è stato di condurre la chiesa nel Giubileo, senza aprire la porta santa, senza varcare la soglia, ma bussando e poi fermandosi in mezzo. Come se fosse in quel mezzo il senso dello stare oggi nella storia: una porta socchiusa.
Il giorno prima di essere eletto papa, parlando di fronte ai colleghi cardinali che stavano decidendo di votare per lui, aveva utilizzato l’immagine della porta per indicare la sua idea di chiesa: «Nell’Apocalisse Gesù dice che Lui sta sulla soglia e chiama. Il testo si riferisce al fatto che Lui sta fuori dalla porta e bussa per entrare, però a volte penso che Gesù bussi da dentro perché lo lasciamo uscire. La chiesa autoreferenziale tiene Gesù dentro di sé e non lo lascia uscire».
Sul suo letto, al ritorno in stanza, aveva trovato una rosa bianca. Pochi giorni dopo fu eletto papa.
Oggi la porta del suo pontificato si chiude, il futuro e il conclave incertissimo chiamato a scegliere il suo successore diranno quanto sia stata profonda la sua rivoluzione. «Credo nella pazienza di Dio, accogliente e dolce come una notte estiva», aveva scritto per prepararsi all’ordinazione sacerdotale nel 1969, con la lettera di nonna Rosa custodita nel breviario.
«Credo nella sorpresa di ogni giorno, fino all’incontro con quel viso meraviglioso che non so come sia, che sempre mi sfugge, ma che desidero conoscere e amare». Il suo desiderio è ora nel mistero in cui si trova, accoccolato in quel Dio che ha sempre cercato nel volto degli altri. A noi resta la sorpresa della speranza, portata nel mondo e nella storia dall’uomo che si fece chiamare Francesco.
(fonte: Domani, articolo di Marco Damilano 21/04/2025