Così l’odio è diventato
la risposta immediata
di Anna Foa
Fra tutti i significati della parola “risposta” – la risposta ad una domanda, la risposta ad una lettera, quella ad una terapia medica, e via discorrendo – la risposta come reazione aggressiva sta diventando sempre più diffusa, con l’aiuto anche dei social in cui i commenti si caratterizzano sempre più ostili e intolleranti.
E così l’odio divampa, nessuna discussione è più civile, pacata, sia che si tratti di faccende private che di politica, sia che si guardi al mondo che al cortile della propria casa. L’odio è sempre visto come una risposta, però, una risposta all’altrui comportamento.
Non necessariamente, però, un comportamento davvero aggressivo, ma anche soltanto tale da essere così percepito. In modo tale che la colpa dell’aggressione sia sempre data a colui contro cui si reagisce, come nella favola di Esopo del lupo e dell’agnello, in cui il lupo uccide “ingiustamente” l’agnello accusandolo di intorbidargli l’acqua a cui entrambi bevevano. Ne sono un esempio calzante i femminicidi che si moltiplicano ai nostri giorni: chi uccide è quasi sempre convinto che la libertà della sua vittima gli arrechi un grave torto, gli impedisca cioè di esercitare il suo potere.
L’idea di rispondere, soltanto rispondere, giustifica ai suoi occhi il suo comportamento, lo rende nella sua aberrante convinzione quello di una vittima, invece che di un colpevole. Ancora più grave è la situazione che si determina quando ad esercitare un simile genere di risposte sono le collettività, non gli individui. Così, vittima vuole presentarsi Putin, nel momento in cui attacca uno Stato sovrano, in cui compie atti indiscutibili di crimini contro i civili presentandosi come colui che vuole soltanto rispondere all’accerchiamento della Nato.
Di nuovo, il lupo e l’agnello. Una risposta in questo senso è la rappresaglia. Un istituto che non è certo solo di oggi, ma ha dietro di sé a una lunga storia, nel mondo classico e poi in quello medioevale. Deriva dal latino, represalia, diritto di riprendere con la forza ciò che si è perso in conseguenza di un danno patito.
Nel diritto internazionale la rappresaglia è invece la reazione di uno Stato a un comportamento illecito e lesivo di un suo diritto, posto in essere da un altro Stato. In teoria, è sempre quindi una risposta.
La Convenzione dell’Aja del 1907 vieta già l’uso della rappresaglia contro una popolazione per fatti di cui essa non è responsabile. Il fatto che sia contemplata nel diritto di guerra non vuol dire che essa sia sempre lecita. Ha delle grosse limitazioni nella norma che la rappresaglia deve essere proporzionata al danno subito e soprattutto, in quella, sancita dal diritto internazionale, che non può essere esercitata sui civili. I nazisti compirono in tutta Europa terribili rappresaglie in risposta alla guerra partigiana. È durante questi episodi che si è consolidata l’idea che la proporzionalità, in una rappresaglia, fosse di uno a dieci: dieci giustiziati, civili o meno, per ogni tedesco ucciso. Ma questa fu solo la decisione tedesca nel caso delle Fosse Ardeatine, in rappresaglia per l’attentato della Resistenza romana a via Rasella, in cui furono uccisi 32 nazisti.
Altrove, come a Marzabotto, a Lidice o a Oradour e in tanti altri luoghi, furono distrutti interi villaggi e assassinati tutti i loro abitanti. Possiamo domandarci anche se la rappresaglia ha dei punti in comune con la vendetta. Anche la vendetta è una risposta, ti vendichi di qualcosa che, a torto o ragione, ritieni ti sia stato fatto. È una risposta però che coinvolge non il diritto di guerra, ma le percezioni, le emozioni di individui e collettività.
Di tutte le emozioni dell’essere umano, il desiderio di vendetta è forse la più inutile: non placa il dolore, acuisce l’odio, rende chi la cerca, da innocente, colpevole a sua volta. Riflettere oggi sulle risposte, dalle più innocue, quelle degli insulti sul web che normalmente si arrestano alle tastiere, alle peggiori, le rappresaglie naziste, non può non richiamarci alla mente quello che in questo momento è il caso più clamoroso e noto di rappresaglia, la guerra di Gaza. Quando alla terribile mattanza del 7 ottobre si è risposto, da parte del governo israeliano, con la distruzione di Gaza e l’uccisione di migliaia di palestinesi, molti dei quali civili, si è detto all’inizio che si trattava non di una rappresaglia ma di colpire i responsabili del 7 ottobre.
Quando si è detto che tutti i palestinesi erano colpevoli, che tutti erano fautori di Hamas, si è tentato di far rientrare la rappresaglia a Gaza in un presunto diritto di rappresaglia, smentito dalla presenza dei civili e dal numero sproporzionato delle vittime. Intanto sempre più saliva nella destra religiosa il richiamo alla vendetta, mentre quella che si era voluta rappresentare come un’operazione di polizia, l’uccisione dei responsabili del 7 ottobre, diveniva una vendetta contro un intero popolo.
Così oggi il conflitto israelo-palestinese, da pochi giorni nuovamente divampato con maggior violenza, è il caso più evidente in cui risposta, rappresaglia, vendetta sono tutt’uno. E le voci di chi cerca di manifestare il suo rifiuto a questo miscuglio micidiale, a Gerusalemme come a Gaza, sono offuscate dall’odio e dall’idea che alla violenza si risponde con pari o superiore violenza, e che bisogna distruggere l’altro da te perché responsabile, appunto, soprattutto di essere altro.
(Fonte: “La Stampa” - 6 aprile 2025)