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mercoledì 28 giugno 2023

Giuseppe Savagnone I nostri giovani privati della speranza

Giuseppe Savagnone
I nostri giovani privati della speranza

Foto di Devin Avery su Unsplash

Una tragedia

Non si è ancora spenta l’ondata di dolore e di indignazione per la tragedia di Casal Palocco, in cui un bimbo di cinque anni, Manuel, ha perso la vita a causa di una assurda sfida di cinque giovanissimi youtuber, tutti ventenni, impegnati a guidare, su un Suv preso a nolo, per 50 ore continuative, solo per soddisfare i loro follower e aumentare il numero dei like. Con l’aiuto di droghe, visto che il conducente è risultato positivo ai cannabinoidi.

A rendere ancora più agghiacciante l’episodio è stato il fatto che, dopo il fatale impatto, che ha distrutto la Smart su cui viaggiava il bambino, gli occupanti del Suv, invece di dare segni di disperazione di pentimento per la loro follia, hanno continuato a filmare con i loro smartphone la scena del disastro che avevano provocato, sempre nell’intento di postare sul loro gruppo YouTube, “The Borderline”, immagini in grado di colpire i loro fan e accrescerne i numero.

L’analisi dello psicologo

Al di là dello shock e delle reazioni emotive immediate – la folla presente ha quasi tentato di linciare i cinque ragazzi -, non sono mancate riflessioni più ponderate sul retroterra psicologico che questo dramma evidenzia.

Giuseppe Lavenia, psicoterapeuta e presidente dell’Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche e Cyberbullismo, ha scritto in proposito: «I giovani sono spesso spinti a cercare sempre più estremi per ottenere l’approvazione e l’attenzione online», fino «a sganciarsi dalla realtà», nella ricerca del «superamento del limite, di cui manca sempre più il senso (…), per sentirsi qualcuno, anche solo nel mondo etereo della rete».

E concludeva: «La famiglia dei ragazzi influencer non può essere considerata l’unica responsabile, ma tutta la società deve assumersi il compito di prevenire episodi simili. È fondamentale promuovere una cultura di responsabilità e bilanciamento nell’uso dei social media. È necessario adottare approcci educativi che incoraggino una sana autostima indipendente dalla quantità di like o follower».

Sagge parole, del tutto condivisibili, che mettono in luce come il vero problema non sia dei giovani, ma degli adulti, e possa essere risolto solo mediante l’educazione. La tanto spesso evocata “emergenza educativa” non colpisce le nuove generazioni – che ovviamente non possono porsi il compito di studiare le strategie più appropriate per la propria formazione – , ma le loro famiglie, la scuola, la Chiesa, l’intera società insomma gli educatori.

Sono loro che non riescono più a far fronte a un clima in cui «i giovani sono spesso spinti a cercare sempre più estremi per ottenere l’approvazione e l’attenzione online», perdendo il senso della realtà e del limite. Ed è vero che anche che sono loro a dover «adottare approcci educativi che incoraggino una sana autostima indipendente dalla quantità di like o follower».

Il problema del senso perduto

Eppure in questa analisi – che è dichiaratamente centrata sull’aspetto psicologico – manca qualcosa di decisivo per comprendere ciò che sta accadendo ai nostri giovani. Qualcosa che è necessario perché una persona che si affaccia alla vita possa farlo in modo psicologicamente equilibrato. Manca il riferimento alla dimensione valoriale e, in ultima istanza, al problema del senso, nella duplice accezione di “significato” e di “direzione” verso cui andare.

È su questo terreno etico ed esistenziale, prima di tutto, che si gioca la possibilità di superare l’emergenza educativa. Le nuove generazioni sono sottoposte, è vero, a particolari pressioni psicologiche, legate anche all’avvento della nuova cultura mediatica e alle mutate condizioni di vita, ma in ogni epoca è stato inevitabile un margine di spaesamento dei figli rispetto al mondo dei loro padri, in cui si trovavano gettati senza alcuna preparazione.

Solo che in passato è stato loro offerto anche un orizzonte di valori – più o meno autentici, più o meno condivisibili – che davano senso alle loro scelte. Così, nel secolo scorso, ci sono stati studenti che, dopo Caporetto, hanno abbandonato i banchi di scuola per partire volontari e rischiare la vita in difesa della Patria. E tanti giovani, qualche decennio più tardi, si sono trovati a combattere nelle file dei partigiani, contro i nazisti, in nome della libertà.

E, dopo la guerra, lo scontro ideologico tra cattolici e comunisti è stato caratterizzato da un forte coinvolgimento ideale. C’erano delle convinzioni profonde, delle scelte esistenziali, che non riguardavano solo la politica, ma determinavano scale di valori e appartenenze totalizzanti, emblematicamente rappresentate da Guareschi nelle figure di don Camillo e Peppone. Era la Democrazia cristiana di De Gasperi e di Dossetti, era il Partito comunista di Togliatti e di Berlinguer, criticabilissimi, ma capaci entrambi di polarizzare intellettuali e gente comune intorno a un progetto culturale ed etico in cui valeva la pena, ai loro occhi, di investire le loro speranze e le loro energie.

E i giovani rispondevano a queste proposte con entusiasmo. Gioventù cattolica e gioventù comunista si fronteggiavano discutendo di modelli di libertà e di società e sostenendo le rispettive formazioni politiche, in accese campagne elettorali, con la consapevolezza di stare giocando una partita decisiva per il nostro paese.

Il Sessantotto ha costituito un forte scossone nei confronti dei precedenti assetti istituzionali e partitici, ma lo ha fatto comunque in nome di una rivoluzione – anch’essa ovviamente discutibile – che aveva una forte impronta ideale ed etica. Il risultato immediato non è stato, comunque, una demotivazione nei confronti degli ideali del bene comune. Non era un’anti-politica, ma un modo diverso di intenderla. Ancora nel 1976 il 93,49% degli italiani si recava alle urne.

Una profonda crisi etica tra pubblico e privato

Poi c’è stato il crollo inglorioso della Prima Repubblica, sotto i colpi di Tangentopoli, e l’avvento della Seconda, con la discesa in campo di Berlusconi, la crisi dei partiti tradizionali e delle loro ideologie e l’avvento di forme sempre più esplicite di populismo, di cui già il “Cavaliere”, con i suoi “contratti con gli italiani”, è stato l’alfiere e che ha poi trovato nella figura di Grillo e nella progressiva affermazione dei 5stelle la sua apoteosi.

In questa nuova stagione, nata con la promessa di purificare la politica, in realtà la corruzione e le violazioni della legalità non sono affatto diminuite, anzi – stando ai rapporti ufficiali – si sono moltiplicate. Ma, mentre prima già le sole indagini della magistratura su di esse erano state considerate – alla luce di una visione etica dominante – motivo di grave discredito per un uomo politico, nel nuovo clima di diffidenza verso le istituzioni e i loro rappresentanti, giudici compresi, sono diventate al contrario motivo di sospetto e di accuse nei confronti di chi le promuoveva. E i sospettati – perfino i condannati – vittime di una assurda persecuzione.

Alle esagerazioni di un legalismo che, al tempo di Tangentopoli, aveva fatto diventare i magistrati i veri arbitri della politica, è subentrata, a livello pubblico, una liberazione collettiva da ogni limite etico, che rende possibile proprio in questi giorni alla presidente di consiglio e al guardasigilli di giustificare – sulle orme dell’ostilità di Berlusconi nei confronti delle tasse – la diffidenza nei confronti del sistema tributario e, al limite, l’evasione fiscale, costringendo il presidente della Repubblica a intervenire per sottolineare la loro imprescindibile funzione sociale.

Ma la maggiore novità del nuovo clima creatosi in Italia con la Seconda Repubblica è stata la scomparsa dei grandi orizzonti intellettuali offerti dal cattolicesimo politico e dal marxismo, che ancora proponevano obiettivi (qui non discuto se veri o falsi) di ampio respiro, e il degenerare di quello liberale, da sempre alternativo agli altri due, in un libertarismo radicale portato a trasformare ogni desiderio in un bisogno, ogni bisogno in una pretesa e ogni pretesa in un diritto.

Una visione individualistica in cui i confini tra privato e pubblico sono scomparsi, insieme all’ideale di un bene comune da perseguire al di là dei propri interessi privati. In essa si sono trovate accomunate, in un unico pervasivo brodo culturale, quelle che un tempo si chiamavano “sinistra” e “destra”, e che ora differiscono solo per le diverse sottolineature che danno al medesimo tema dei diritti individuali, insistendo rispettivamente sui temi bioetici o su quelli economici e sicuritari.

Ne è un risvolto la disaffezione nei confronti della politica, che proprio nel bene comune dovrebbe avere il suo fine. Sta di fatto che l’astensionismo è passato dal 6,51% delle elezioni del 1976 al 36,1% delle ultime, nel 2022.

Niente per cui vivere o morire

Il punto è che ogni riferimento a valori che trascendano il singolo e per cui abbia senso morire – come nel caso dei giovani volontari della prima guerra mondiale o dei partigiani – è scomparso. Ma se non c’è niente per cui morire, non c’è niente neppure per cui vivere. Rimane soltanto la pulsione elementare all’affermazione di sé, senza ragioni e senza limiti.

La recente celebrazione di un personaggio come Berlusconi a figura simbolo dell’Italia di oggi non ha fatto altro che sancire questo modello di vita, privo di ogni obiettivo che non sia l’appagamento sfrenato dei propri appetiti e il perseguimento del successo a qualunque costo, sia nel campo economico, sia in quello politico, sia in quello sessuale, a prescindere da ogni dimensione etica.

Una prospettiva che, in una società fortemente competitiva, può dare luogo, nei giovani, a due possibili atteggiamenti, a volte vissuti in contemporanea dagli stessi soggetti. Uno è il senso di impotenza e la rinunzia a partecipare a un gioco che appare tanto insensato quanto violento. È il caso dei NEET (Not in Employment, Education or Training), ben tre milioni di italiani tra i 15 e i 34 anni che non studiano, non lavorano né cercano lavoro.

L’altro atteggiamento che può scaturire da questo vuoto di senso della vita reale è il tentativo di «sentirsi qualcuno, anche solo nel mondo etereo della rete», superando tutti i limiti con comportamenti balordi, alla ricerca di una effimera visibilità volta a sostituire i valori che non ci sono. Era quello che facevano, come tanti altri loro coetanei, i protagonisti dell’assurda tragedia di Casal Palocco.

E non solo perché fossero instabili e immaturi psicologicamente, ma soprattutto perché noi adulti non siamo stati in grado di offrire loro niente che assomigliasse a una vera speranza.
(fonte: Tuttavia 21/06/2023)