Enzo Bianchi
Se mancano le parole del dolore
La Repubblica - 19 Giugno 2023
È vero che non sono un giornalista di professione, ma sovente mi ritrovo a pensare come sia veramente inadeguato il pezzo che scrivo e viene pubblicato, qualcosa che mi si impone perché il cuore, la coscienza lo richiede.
Vent’anni fa scrivevo un libro sul massiccio arrivo di migranti nelle nostre terre con una dedica: “Agli uomini, alle donne e ai bambini che andando verso il pane sognano la nostra accoglienza. Sono morti da stranieri nelle acque del Mediterraneo, mare che avrei voluto potessero chiamare e sentire ‘nostro’ come lo sento io e lo amo”.
Speravo che quel fenomeno fosse passeggero e che l’accoglienza, l’ospitalità della quale l’umanità ha sempre dato prova, potesse diventare realtà in un mondo come il nostro, che non dovrebbe aver paura dell’arrivo di gente sconosciuta, e anzi ne ha bisogno perché si possa forgiare insieme una nuova civiltà.
E invece l’Europa è diventata sempre più inospitale, chiusa di fronte a gente che viene da altre terre a cercare benessere e pane. I paesi europei con le loro culture si sono messi alla ricerca di una loro identità, nell’intento di conservare se stessi e non la memoria di quello che erano stati, preferendo l’autarchia allo scambio fecondo di ciò che emerge come nuovo. L’Europa ormai sa solo ripetere con convinzioni diverse: “Non dovete partire, restate dove siete…!”.
Anche le nostre chiese tradizionali, quelle europee che si impongono ancora per la loro massiccia e capillare presenza, non sostengono più con la stessa convinzione l’universale diritto all’accoglienza per persone di diversa provenienza. Continuano a mantenere organismi socio-assistenziali come la Caritas, ma non sanno salvaguardare e promuovere per tutti gli umani quei diritti che nascono dalla concreta fraternità dei figli di Adamo.
Se guardando al passato, pur riscontrando nell’analisi tragedie e sangue versato da entrambe le parti, dobbiamo constatare con stupore come il mondo greco-romano abbia saputo accogliere quello giudaico e poi quello barbarico, donandoci il frutto maturo della cultura europea, oggi non sappiamo essere così lungimiranti e inclusivi.
Ma i morti non sono salme, non sono statistiche sull’ammontare dei cadaveri: sono uomini, donne e bambini con una vita spezzata per sempre perché hanno perso ciò che avevano di più caro ed era per loro ragione di vita. Occorre ascoltare le loro storie per poter percepire l’unica cosa che ci permette di essere compagni solidali, reciprocamente accoglienti. Lo so, è una grammatica di umanesimo da imparare, eppure essa sola ci permette di sapere chi siamo in verità, uno accanto all’altro, nella pace o nella guerra.
Altri seicento morti nei pressi delle coste greche perché non ci sono state braccia tese, braccia che li salvassero e permettessero loro di sbarcare sulla terraferma. Non so se hanno gridato ma i rabbini ne sono certi: un grande grido si è alzato da quella gente sommersa in mare, una richiesta di aiuto e un grido che chiede vendetta. Occorrerà pure che qualcuno ascolti quel grido e veda, intervenga e porti salvezza dalla morte! I credenti lo pensano, lo vorrebbero, lo desiderano fino a gridare a loro volta, ma forse sanno anche loro che è inutile: il cielo è chiuso, Dio tace, l’ingiustizia continua a trionfare. Sì, anche a noi mancano le parole del dolore, della rabbia di fronte a queste immani stragi di migranti. Siamo veramente nella desolazione e la fede, la fede cristiana, si fa muta, non può che piangere ed è tentata dalla nientità. Se non c’è l’uomo non c’è neanche Dio. Troppe sofferenze, troppe morti, troppe discese nell’inferno voluto dagli uomini senza che appaia un segno di speranza. Nelle acque dell’Egeo ho sentito bestemmiare l’uomo e ho provato la tentazione di bestemmiarlo anch’io.
(fonte: blog dell'autore)