Antonio Savone
Aprire il cuore – Annunciazione del Signore
Il mistero di Nazareth è il mistero che richiama la generosità di una risposta e la disponibilità a fare spazio contraendosi. Quando l’angelo porta l’annuncio a Maria, non le consegna alcuna garanzia circa il futuro: solo le chiede fiducia nel qui e ora di quella vicenda che non la metterà al riparo da infortuni futuri.
Accogliere il dono della vita non è mai facile, per quanto lo si possa desiderare, ma accogliere il dono della vita del Figlio di Dio, travalica ogni pensiero e ogni possibilità umana. Da capogiro. Se è vero che la presenza di un altro nella nostra vita mette sempre a repentaglio la nostra esistenza, accogliere la vita del Figlio di Dio misura tutta l’inadeguatezza umana: ne sarò capace? Non è un caso che Maria resti turbata a quell’annuncio così destabilizzante.
Accogliere il dono della vita significa disporsi a soffrire: e non perché Maria sarà la Madre del Signore, il peso dei dolori diminuirà. Anzi! Proverà angoscia come ogni madre, conoscerà l’ansia proprio come chi sente che qualcosa gli sfugge di mano. Nessuna semplificazione dell’umano esistere.
L’aver dato credito alla parola del Signore, non le risparmierà l’eventualità di pensare al futuro come a qualcosa dal volto incerto. Come se non bastasse, il Figlio che nascerà da Maria sarà, sì, “il più bello tra i figli dell’uomo”, ma resterà comunque “pietra di inciampo”. Paradossalmente, la prima a doversi misurare con quella pietra sarà proprio lei.
E poi, c’era proprio bisogno che la nascita del Figlio di Dio venisse annunciata “prima che Maria andasse a vivere con il suo fidanzato”? In fondo, quell’evento atteso da secoli, poteva essere ancora procrastinato di qualche mese: cosa sarebbe cambiato, del resto?
Non credo che l’eco delle parole consegnate all’angelo – “Eccomi, sono la serva del Signore” – non abbiano avuto il retrogusto della fatica e del pianto. Ritrovarsi incinta fuori dal matrimonio significava conoscere il giudizio e la condanna di chi spia dalla finestra la vita altrui e non teme di usare certi argomenti come passatempo per le proprie giornate trascorse nella banalità e nel cicaleccio. Se con una certa disinvoltura può aver detto di sì al Signore (non senza peraltro aver conosciuto un vero e proprio percorso emotivo), la partenza dell’angelo avrà significato l’averla messa di fronte alla portata reale di ciò che quel dialogo aveva significato. Cosa sapeva del mondo, della vita, lei che era solo una ragazza? Il gesto che senz’altro avrà accompagnato quei giorni e tutti i suoi giorni è stato quello del tendere la mano per restare aggrappata a Dio. A buon diritto Elisabetta non tarderà a riconoscere: “Hai avuto coraggio nel fidarti di Dio. Beata te”. Non ha chiesto garanzie per fidarsi, non rassicurazioni circa l’esito di quella consegna. Per fidarsi, a Maria è bastato sapere che sulla strada appena imboccata c’era di mezzo anche Dio, e su due piedi ha accettato la sfida. Sentiva compiersi le parole del Salmo 22 che tante volte avrà ripetuto e che ora acquistavano un sapore e un peso nuovi: “Se anche vado per valle tenebrosa, non temo alcun male. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza”. Dio c’è e tanto basta.
Certo, noi sappiamo come sono andate a finire le cose, e perciò il fatto non ci sconvolge più di tanto. La storia di casi simili a quelli di Maria, ci ricorda che non poche volte, ragazze trovatesi nella sua stessa condizione, hanno conosciuto l’amaro calice dell’abbandono e della solitudine. Il Vangelo non tacerà che un simile progetto ha attraversato i pensieri del suo futuro sposo Giuseppe. Sogniamo e invochiamo un Dio che ci risolva la vita: stando al vangelo e alla vicenda di chi ha avuto a che fare con lui seriamente, sembra quasi che egli la complichi continuamente. E, tuttavia, non senza mettersi in gioco egli stesso.
Mentre diceva “sì” all’annuncio dell’angelo, Maria accettava di giocare la partita più faticosa della sua esistenza perché fino alla fine non le lascerà un attimo di tregua. Quel figlio sarà la preoccupazione di tutti i suoi giorni. L’essere madre, infatti, non è qualcosa di circoscritto ad una fase dell’esistenza del figlio finché egli non impara ad assumersi le sue responsabilità e finalmente può uscire di casa. Si è madre e si è figli per sempre (come si è padre per sempre, d’altronde), persino quando il figlio non dovesse esserci più: l’amore, anche se non potrà essere dispiegato concretamente attraverso la cura della persona fisica, non verrà mai meno.
(fonte: A casa di Cornelio 24/03/2023)