Andrea Riccardi
Francesco, i dieci anni del primo Papa «globale»
Estranea all’articolazione postconciliare tra progressisti e conservatori, la scelta di Bergoglio è la risposta allo spaesamento e alla crisi del «Noi» nell’epoca dell’ «Io»
Si compiono dieci anni di pontificato di Francesco. Non sono arrivati a tale traguardo né Giovanni XXIII né Benedetto XVI. Paolo VI, gran riformatore, governò quindici anni. Giovanni Paolo II, in ventisette anni, transitò la Chiesa dalla guerra fredda alla globalizzazione (dando pure un contributo «politico» specie in Polonia), ma i problemi del mondo globale lo hanno solo sfiorato. Bergoglio è il primo papa «globale». Per capirlo meglio bisogna partire dal momento in cui è maturata la scelta del papa argentino.
Innanzi tutto dallo shock della rinuncia di Ratzinger, sorprendente in un sentire tradizionale. In fondo soggettiva. Francesco oggi ha archiviato la normalizzazione della rinuncia, ricordando come i «grandi patriarchi» non si dimettono: «credo che il ministero del Papa sia ad vitam». In realtà, le dimissioni di Ratzinger furono in parte provocate dall’ingovernabilità del Vaticano e della Chiesa. Un papa non carismatico, come lui, non riusciva.
Perché i cardinali si diressero su Bergoglio nel 2013? Al conclave del 2005 egli fu l’alternativa a Ratzinger, la cui scelta sembrò rassicurante. Bergoglio era però un pastore, non amava il mondo curiale: anche il suo modo di governare (di cui aveva sofferto qualche ricaduta a Buenos Aires). Era poco simpatizzante per taluni wojtyliani, come il card. Lopez Trujillo, per i loro metodi imperativi. Era esterno all’Italia. Buona parte dei problemi di Curia erano attribuiti agli italiani dai cardinali che gli chiesero di bonificarla.
Fin dalla seconda votazione al conclave del 2013, secondo Jerry O’Connell, ci furono due candidati non europei: Bergoglio con 45 voti e il canadese curiale, Ouellet, legato all’eredità di Ratzinger. Scola, italiano e pure ratzingeriano, ebbe 38 voti avendo parte degli italiani contro. Votarono Bergoglio pure cardinali, poi non identificatisi con il governo di Francesco. Nel 2013, i cardinali sentirono la necessità di svincolarsi da un intreccio forte tra crisi europea e crisi della Chiesa. Bisogna affidarsi a un papa «nuovo». Il papato, in caduta d’autorità, andava rilanciato per uscire dalla crisi, manifestata dalle dimissioni dell’ultimo papa europeo.
Oggi si sta diffondendo un’interpretazione (specie nel mondo tradizionalista) per cui il conclave del 2005 fu una tappa per la «conquista» del papato da parte dei gesuiti e della «mafia di San Gallo». Questa realtà è ignota ai più: si allude a una riunione annuale, cui partecipavano pochi cardinali europei, Martini, il belga Danneels e qualche altro e alcuni vescovi, in cui discutevano liberamente. Danneels la enfatizza molto nella sua biografia, scritta sotto suo controllo. Finì nel 2006 e erano solo in quattro, tra cui un solo cardinale, Daneells. Martini non vi partecipò dal 2003.
Martini sarebbe il cuore della «conquista del papato». Ma, lui pure gesuita, non volle Bergoglio al conclave del 2005, scegliendo alla fine Ratzinger. Bergoglio non godeva della simpatia di Martini e dei leader gesuiti tanto che, una volta eletto nel 2013, ci fu iniziale sconcerto nella Compagnia. Vedere in Martini, nella «mafia di san Gallo», nei gesuiti l’origine del pontificato di Francesco è una narrazione lontana dalla storia, che corrisponde alle teorie cospirative in voga. L’estraneità di Bergoglio al dibattito europeo e all’area liberal è evidente: lo mostra il legame con la teologia argentina del popolo e con pensatori come l’uruguaiano Methol Ferré. Non era il mondo di Martini né di Danneels. Né le loro visioni.
La crisi del cattolicesimo nel mondo globale era però profonda. Non solo indotta dalla secolarizzazione. Ma l’immersione in un universo di processi nuovi e sconvolgenti ha scosso la Chiesa e il sistema postconciliare, più di quel che si crede. Il rabbino Jonathan Sacks, acuto osservatore del XXI secolo, parla di «mutamento climatico culturale»: «il passaggio dal Noi all’Io». I cattolici sono cambiati con il mondo. «Comunità», parola chiave del Concilio, è fuori moda. La Chiesa del Noi è scossa da un processo di soggettivizzazione, favorito dal digitale, in cui si sono sviluppate anche le molteplici posizioni tradizionaliste.
Bergoglio condivideva, da lontano, l’idea che Roma dovesse cambiare, comune a cardinali di diverso sentire. Aveva colto però che qualcosa in profondità era mutato tra i cattolici, che il «noi» si era incrinato e si doveva rilanciare, non in modo strutturale, un orientamento comune. Fu la sfida di «uscire» che propose pochi mesi dopo l’elezione con l’Evangelii gaudium. Il primo pontificato del mondo globale, estraneo dall’articolazione postconciliare tra progressisti e conservatori, nasce come risposta allo spaesamento. La frase di Francesco, appena eletto, è indicativa: «sembra che i miei fratelli cardinali sono andati a prenderlo quasi dalla fine del mondo». Si cercava la «guida» fuori dai mondi abituali.