8 marzo
Lettere alle donne del pianeta
Volevamo incontrare e parlare con le donne che nel mondo si battono per il cambiamento e che oggi sono le protagoniste della lotta per la vita e la libertà. ...
Lo facciamo nel modo più semplice: le lettere di dieci scrittrici italiane che - siamo sicure - in qualche modo arriveranno anche nelle parti più lontane del globo. ...
- Elena Janezeck scrive alle migranti invisibili ed escluse.
- Maria Grazia Calandrone invece fa parlare una bambina indiana che ha rifiutato un matrimonio imposto dalla famiglia.
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(fonte: DONNE CHIESA MONDO marzo 2023)
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Elena Janezeck
A voi straniere in casa nostra
“Potete avere titoli di laurea o altre belle qualifiche, però che eravate maestra, geometra, ingegnere qui non conta più nulla. A volte, però, siete ‘bravissime’...”
Alla cassa del supermercatino cinese c’è stato l’attimo in cui ci siamo guardate, credendo tu che io avessi preso per sbaglio la tua confezione di kaša. In effetti, è curioso che in un posto del genere, dove viene la gente di tutti i continenti, fossimo una dietro all’altra a comprare il grano saraceno, stessa marca, stessa scatola. Così, una volta arrivata in cucina me la sono girata tra le mani, pensandoti. Perché era stampata in un cirillico anticheggiante e, in cima, una chiesa dalle cupole gialle a cipolla, e, sopra, lo sfondo di verdissimi campi fioriti. Perché assieme ai chicchi tostati vendeva quel buon mondo antico ai migranti dell’Est, quel mondo a immagine della nostalgia che avrebbe dovuto comprenderli tutti e, invece, era ridotto allo strazio. Perché la scatola era in russo e tu eri ucraina, probabilmente. Almeno l’è facile leggere le istruzioni, mi sono detta, e soprattutto le viene comodo prepararsi la cena in dieci minuti. Un pentolino, un piatto, un pezzetto di burro. Altri pensieri, altre priorità, altri problemi. I familiari lontani, la guerra, il lavoro, la stanchezza quotidiana e, nelle ore libere, trovare il tempo per fare quattro chiacchiere con le compaesane e altre cose piacevoli. Poi chissà se quella marca non la acquistavi da anni e non, come me, per la prima volta. Però dopo aver letto che il grano saraceno era prodotto in Ucraina lo ho messo via con una leggerezza maggiore.
Ecco, non avevo capito che sei anche un mercato. Non troppo grande perché risparmi, e pure sul tempo, però una nicchia meritevole di essere coperta. L’azienda tedesca che importa la kaša nei sacchetti di cottura la distribuisce nell’intera Europa occidentale. E quindi mi vedo un mare di donne immigrate che immergono il sacchetto nell’acqua bollente, donne che svolgono in prevalenza lavori di cura, alcune in regola, altre in nero. Donne indispensabili nei paesi di approdo per accudire gli anziani, i bambini, i malati, donne che sorreggono l’economia del paese di origine con le loro rimesse. Donne globali, vi definisce il titolo di un libro prezioso perché insegna quanto sgobbando all’estero avete pagato - ma chi paga pretende. Pretendete abbiano vita migliore i figli mandati a studiare, e avete dimostrato soprattutto alle figlie che possono farcela. Questa voglia di benessere, libertà e democrazia forse l’avete riportata anche voi nel vostro paese. Ma non è semplice, non è indolore. Attente a non creare dissesti maggiori, non mettete in discussione il ruolo degli uomini e, anche se i soldi in casa sono principalmente vostri, vi date da fare perché nessuno si scordi da dove venite.
Nel supermercato, dove ci siamo incrociate, hanno le salse per le filippine, la manioca per le peruviane, le spezie magrebine, i sottaceti romeni e moldavi, e pacchi di riso di ogni qualità e grandezza visto che dall’Asia all’Africa all’America Latina lo consumano tutti. Il basmati si trova a un prezzo migliore che nelle grandi catene e anche altri prodotti acquistati da molti italiani, ma in oltre vent’anni mi è capitato di rado vederci entrare qualcuno che non avesse una faccia straniera.
I migranti sono visibili solo quando rappresentano qualcosa, la questione, l’emergenza, il problema, altrimenti le loro vite comuni stanno in disparte negli spazi comuni. Le donne sono meno adatte a rappresentare il problema che, dipinto come violenta minaccia, dev’essere maschio per forza, ma quando lo è veramente sono le prime a subire. Le pachistane a volte si trovano in piazza con i loro bambini, allegre, in piccoli gruppi, a volte camminano dietro al marito e fanno la spesa solo quando servono a caricarla, alcune velate sino agli occhi. Ma quell’eccesso di velo nutre l’ostilità nei loro confronti rendendole più escluse, più invisibili ancora. In qualche misura voi donne migranti, rappresentando semmai un problema riflesso, lo siete tutte, velate o scoperte. Quando è scoppiata la guerra ho sentito affermare una signora della cultura italiana che non sapeva nulla del tuo paese tranne ciò che le raccontava la badante ucraina, ma poi ha subito detto la sua opinione su quell’orrenda tragedia. Della tua compaesana non ha menzionato neanche il nome e mi sono chiesta il perché. Mi sono detta che, per ragioni diverse, la migliore delle quali era un senso di riservatezza, creava imbarazzo fare uscire dalle mura domestiche quella donna straniera. Bisognava comprendere: non è facile mandare giù la vecchiaia, accettare in casa un’estranea, averne bisogno. Sono quasi sempre le donne ad assumere una donna, a valutarne il servizio, a vigliare su tutto quello che demandano all’altra in quel luogo di cose e di affetti, casa nostra, l’unico regno dove molte di noi si sentono sovrane, ancora oggi. La relazione serva-padrona è ambivalente per definizione, ma lo è ancora di più con una donna immigrata: da un lato si desidera che l’estranea sia quanto mai familiare con gli usi e i costumi, dall’altro il suo essere straniera calza meglio il ruolo di chi non può sovrapporsi alla vera famiglia. E voi, con i vostri figli tirati su dai vostri genitori, come fate? Quando stanno in un altro continente, spesso non riuscite a vederli per anni. Potete avere titoli di laurea o altre belle qualifiche, però che eravate maestra, geometra, ingegnere qui non conta più nulla. A volte vi indurisce il lavoro pesante e la vita in un paese straniero o può darsi eravate già simili, già a denti stretti, prima di partire. A volte, però, siete “bravissime” e quell’aggettivo riassume tutto quello che fate. Allora è davvero incredibile quanta pazienza, allegria, attenzione riuscite a trovare, quanta antica sapienza e affinata esperienza di cura, quanto peso siete capaci di reggere sostenendo anche quelli da cui siete pagate. Spesso portate agli altri dell’amore che ai vostri potete far giungere solo via videochiamate e Money Transfer, e questo sarebbe impagabile non fosse l’unico spreco di cui non vi sentite obbligate di rendere conto a nessuno.
Elena Janezeck
(fonte: DONNE CHIESA MONDO marzo 2023)
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“Amavo lo studio. Ribellandomi a un matrimonio imposto ho sradicato la miseria della mia sorte.
E anche altre giovani indiane lo faranno dietro me”
Maria Grazia Calandrone*
Sposa bambina il mio no
* Maria Grazia Calandone ha dato voce a Nandhini, che a 14 anni in India è riuscita a scampare a un matrimonio combinato dalla zia. Insieme l’hanno raccontata a #StandUpForGirls 2019, evento di Terre des Hommes.
Sono nata il 9 maggio del 2003 nel villaggio rurale chiamato Kalavai.
Qui le case hanno le porte di legno colorate di azzurro, affacciate su piccole strade di polvere. Siamo mischiati al bosco, al vento, al sole, all’acqua dolce del piccolo lago, all’arsura della sabbia, alle moto, alle biciclette. I colori leggeri delle facciate sono confusi con l’intonaco azzurro del cielo che posa sulle tegole e sulle foglie di palma come una cicogna gigantesca, un gigantesco uccello pigliamosche. Se piove, il cielo grigio sembra un rapace con le ali aperte. E, sotto, l’arancione della terra, i cerchi di fuoco nel tempio.
I bambini giocano a mosca cieca, corrono tra le case.
Le divinità li salvano dal morso degli scorpioni.
Nel 2013 mamma Alamelu muore. Non importa il perché, non esiste un motivo per cui la mamma di una bambina di dieci anni muoia. Basta così.
Io, mia sorella di nome Anandi e mio fratello, entrambi maggiori di me, restiamo con un padre alcolizzato che pochi mesi dopo si risposa e va a vivere con la nuova moglie nella capitale, sul mare, ci lascia lì come tre pianticelle che uno parte e smette d’innaffiare.
Noi tre veniamo accolti dalla sorella di mamma, che ha già figli suoi e in casa lavora solo il marito, come manovale, siamo poverissimi.
La prima a liberarci dal suo peso economico è mia sorella, che si sposa a 17 anni, due anni più tardi.
Ancora due anni dopo, tocca a me. Ho 14 anni, ho appena finito la nona classe e mia zia decide di darmi in sposa a un uomo che ha il doppio dei miei anni. Io 14, lui 28. Quasi non lo conosco. Supplico, piango. Niente. La zia risponde che non riesce più a mantenermi. Le amiche mi dicono di obbedire, che non abbiamo scelta, è sempre stato così, è così per tutte, sarà sempre così.
Ma io sono innamorata.
Ho un sogno, una passione più grande della mia vita.
Io sono innamorata di una cosa astratta. Come posso spiegarmi?
Amo i libri, lo studio. Come spiegare che non sono fatta per obbedire?
18 luglio 2017. Il matrimonio è fissato per l’indomani. È tutto pronto.
Sono come quei tori spinti nell’arena durante il Jallikattu: ubriachi, con le orecchie tagliate e il peperoncino negli occhi. Pazzi di paura.
Anch’io devo fare spettacolo. Un matrimonio indiano è fatto per restare nella memoria. Domani.
Mi chiudo in camera, piango sui libri che devo abbandonare. Neanche fossero il corpo di una madre, di un fidanzato. È così che dev’essere.
Poi, lo sguardo mi cade su un foglietto a colori che mi hanno dato a scuola, destinato a noi ragazze. C’è scritto il numero di telefono di Childline 1098.
Non decido nemmeno, non posso dirmi consapevole: una forza più grande della mia stessa volontà mi slancia verso il telefono.
Sto chiedendo aiuto. Sto denunciando chi mi ha cresciuta, sto rinnegando la mia famiglia e la famiglia del mio promesso sposo, sto rinnegando le mie tradizioni.
Mi sto ribellando alla miseria con tutta la forza della mia vita.
Mi rispondono che arriveranno a salvarmi. In un paio d’ore.
Esco dalla mia camera. Il mio viso è truccato, il corpo decorato con henné e curcuma, ai lobi delle orecchie hanno agganciato orecchini, sulla fronte ho corone di perle, ho i polsi coperti di bracciali e mi hanno dipinta con ori e smalti. Ho fiori sulla testa, come il toro.
Sono le otto di sera. I riti casalinghi sono finiti.
Dobbiamo andare al tempio, dove mi aspetta la famiglia del promesso sposo.
Camminiamo. Anzi: camminano e cammino. Due universi affiancati, incompatibili. Io e loro, io e tutti gli altri.
Immagina di camminare pensando all’abbraccio di uno sconosciuto, che tra poco ha il diritto di abbracciarti, perché tra poco gli apparterrai. Per tutta la vita.
Immagina di camminare sapendo che non potrai più fare quello che ami. Mai più.
Immagina di camminare sapendo che trascorrerai il resto della vita a servire lo sconosciuto col quale sarai costretta a dormire, sapendo che sarai costretta ad accudire i suoi genitori come fossero tuoi.
Sono il toro impazzito di dolore. Sono un’offerta, il risultato di un accordo.
Lo dice il Kamasukta, l’inno all’amore che reciteremo durante la cerimonia nuziale: «Chi ha offerto questa ragazza, a chi è stata offerta?»
I tamburi e il suono degli shanai portano fuori dal corpo il mio cuore, fanno sentire a tutti un batticuore che sembra gioia ed è disperazione.
Il corteo, a vederlo passare, è colorato e concreto. Accade. Sta accadendo.
La bambina è completamente sola in mezzo ai parenti che la sospingono. Completamente sola nel vociare.
Inala il rancido dei corpi anziani. La tradizione.
Tra la folla, vede la cugina col tic all’occhio. Forse vuole incoraggiarla a scappare.
Io non sono più io.
Gli adulti che dovevano proteggermi sono uno stormo di uccelli crudeli che offre la mia vita come se fosse sua. Ma la mia vita è sacra.
Siamo entrati nel tempio. Immagina l’odore dell’incenso che brucia. Immagina gli smalti e gli stucchi. Lo stormo colorato mi consegna.
Immagina le erbe, le frittatine di patate, immagina l’odore del riso e il ronzio delle mosche sopra i contenitori di alluminio pieni di pollo marinato e di formaggio, immagina lo spacco verticale del peperoncino tagliato per il lungo come me, che sono già due, la viva e la morta nell’acqua fredda.
Il rosso dei vestiti, le corone di fiori sono sangue e spine. La gioia degli altri è una trafittura. Ai lati del tempio sono appese catenelle di fiori e vetro. Nelle ciotole sono pronti il cocco e il latte. Non arriva nessuno a salvarmi. Non succede niente. Il matrimonio procede, verso la mia fine.
I colori, le pance, le erbe, il latte, il riso, il rosso e l’oro, il fuoco.
I colori, le pance, le erbe, il latte, il riso, il rosso e l’oro, il fuoco.
Il sorriso di lui come un grano d’incenso che mi consuma. Il profumo porta via l’anima.
Io sono fatta di materiali resistenti, ma non credevo di dover resistere alla mia fine.
Poi, finalmente, accade. Arrivano le jeep. Frenano, alzando polvere.
Venti persone scendono concitate. Sono civili, sono polizia. Cercano me.
Lo stormo mi spoglia dei gioielli e mi nasconde, mi chiede di mentire. Io dico sì, faccio sì con la testa, ma poi esco correndo e grido, fino a perdere la voce, che io volevo solo studiare.
Rimango per settimane in una casa di accoglienza di Terre des Hommes, fino a che sbrigano tutte le pratiche. Sono stordita, sono come in un sogno, sono sola, completamente sola come chi è libero.
Tra le otto di sera e mezzanotte la mia vita è diventata mia. Adesso frequento la dodicesima classe, sono diventata mio malgrado una celebrità, il governo mi ha dato pure 1.200 euro, studierò, combatterò per altre come me.
Compiendo il gesto di telefonare, ho sradicato la miseria della mia sorte come un’erba malsana, ho fatto un viaggio nello spazio e nel tempo. E altre lo faranno dietro me.
Siamo soggetti al tempo e non siamo padroni di niente. Solo del poco tempo che abbiamo, che è la nostra vita.
Lo studio ha salvato la mia vita. Anzi, di più: ha salvato la mia libertà.
Ma io non vi ho traditi, io vi amo come sempre, ma rimango in me stessa, nel mio cuore, fermo come l’erba che non si può schiacciare. Perché io non volevo passare invano, in questa vita.
Maria Grazia Calandrone
(fonte: DONNE CHIESA MONDO marzo 2023)
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