Fabrizio Filiberti / Giannino Piana
DOPO UN ANNO DI GUERRA
UN INVITO A RIFLETTERE
Dopo un anno di guerra la sfida è massima, per tutti. Da un lato, gli interventisti scontano solo il crescente invio di armi che produce un’escalation senza esito. La diplomazia europea o internazionale non ha prodotto risultati. Dalla ricerca della pace si è scivolati alla ricerca della vittoria. Dall’altro lato, i pacifisti hanno continuato a dichiarare la loro contrarietà all’invio delle armi, a non rispondere in modo alternativo alla domanda di aiuto del popolo ucraino, a denunciare l’abbandono e il silenzio graduale sulla ricerca di soluzioni alternative. Ciò lascia lacerate le coscienze.
L’orizzonte della Pace del mondo
A fronte della grande mobilitazione di solidarietà, anche da parte delle comunità ecclesiali, è mancata una più puntuale rielaborazione del dramma, l’interrogazione non solo sul “che fare?” ma sul “cosa pensare?”. Proponiamo a voce alta le poche note seguenti, augurandoci una condivisa discussione.
“Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra? Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra!” (Lettera di Giacomo, 4,1-2).
A questo stato di conflitto permanente si contrappongono le istanze di riconciliazione (Mt 5,23-26), di non violenza (5,38-42) e di amore dei nemici (5,44). Siamo ad un vertice assoluto dell’insegnamento di Gesù che trova evidenti difficoltà ad incarnarsi nella storia, ma che costituisce un criterio irrinunciabile di ogni uomo pacifico.
Un totale disarmo del cuore violento. La pace si ottiene divenendo pacifici, facendosi pace come Gesù stesso è pace: “Egli infatti è la nostra pace” (Lettera agli Efesini, 2,14).
Tra Vangelo e storia
Come, dunque, essere operatore di pace e speranza? Come posizionarsi davanti alla guerra?
La prima direzione è quella della scelta evangelica in senso pieno. Il cristiano sa da che parte stare: nel rifiuto della violenza, dell’uso della forza, della guerra, dell’uccisione del soldato dalla divisa diversa, nel non rispondere al male se non con il bene. Evidente è l’insostenibilità della guerra come risoluzione dei conflitti, forte della denuncia che nessuna guerra oggi può essere “giusta” perché le modalità e le conseguenze distruttive con le quali viene combattuta sono sproporzionate rispetto ad ogni offesa.
Ciò richiede – come nei primi tempi cristiani – la necessità di rifiutare il servizio armato offrendo semmai se stessi a un servizio non violento. Il rischio di subire persecuzioni fisiche o legali di fronte alla prescrizione obbligatoria e alla denuncia per tradimento (previste da molti ordinamenti giuridici) vanno dunque assunti con coraggio. Il diffondersi dell’obiezione di coscienza, da riconoscere come diritto di libertà, può favorire nel tempo anche lo sviluppo di tecniche e pratiche di difesa armata più efficaci e proporzionate, meno invasive sul piano umano, riformulando idea e forma degli eserciti a scopi difensivi.
La seconda direzione chiede l’elaborazione creativa di forme non violente di difesa. Al meritorio lavoro dei movimenti, occorre promuovere la difesa non violenta a livello istituzionale e pubblico. Solo una sua specifica previsione all’interno del Ministero della Difesa può garantirne lo sdoganamento dalla mera testimonianza soggettiva e renderla oggetto di un pensiero strategico organizzato, farne un percorso educativo autorevole e obbligatorio di tutta la cittadinanza. Non ultimo, può configurare un alternativo contributo della nazione alle operazioni di difesa messe in atto in conformità alla partecipazione a organismi e alleanze internazionali, dando concretezza al dettato costituzionale secondo il quale l’Italia ripudia la guerra, ma non si sottrae agli obblighi internazionali (art. 11).
L’agire politico
La terza direzione è quella che coinvolge ciascun cittadino nella trama delle relazioni col mondo, in specie sul piano dell’agire politico, lì dove occorre assumere decisioni nell’immediato. In questo senso, lasciando al politico la responsabilità delle decisioni a partire da opzioni divergenti – inevitabili nel pluralismo delle idee e interessi in campo –, occorre partecipare e compromettersi nel dibattito pubblico per orientare quelle decisioni, nel loro sostegno o diniego in vista della praticabile difesa dei valori umani, giustizia e pace possibili qui e ora.
A questo livello, anche la Chiesa come soggettività sociale, può e deve discernere e valutare le politiche messe in atto. Il giudizio sulle scelte attuate misura la distanza tra Vangelo e storia. Se la pace storica è aperta ad un orizzonte di compiutezza (Is 2,4: “forgeranno le loro spade in vomeri / le loro spade in falci; / un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo / non si eserciteranno più nell’arte della guerra”) la pace evangelica è attuazione della prassi di Gesù nei suoi discepoli, smobilitazione già ora di ogni logica del nemico quale presupposto di ogni violenza e guerra.
Per questo, da un lato il giudizio morale sulla guerra suona perentorio e evidente (quel “Pazzi!” di Francesco davanti al riarmo annunciato dai paesi europei); il giudizio politico si misura sulla capacità di dare gambe alla vera pace nel qui e ora, pur se ancora lontani dalla perfezione; la cattiva politica è quella che, potendo, non ha il coraggio di realizzare il possibile, quella che preferisce strade non di “compromesso”, ma “compromettenti” perché piegate a interessi relativi rispetto all’assoluto della pace.
Preparare la pace
Vangelo e storia vivono insieme, sono correlativi. Senza la storia il Vangelo è mera idealità astratta; senza il Vangelo la storia rimane prigioniera dei fatti e delle pulsioni e non sa guardare oltre se stessa. In questa prospettiva il lavoro di preparazione della pace è quotidiano. Se vuoi la pace, prepara la pace. Non è questione dell’ultima ora, quando gli eventi precipitano.
Educarsi alla pace, al cuore non violento, ai gesti non violenti, alla resistenza, alla disobbedienza civile, all’obiezione di coscienza, deve assumere non solo un significato di testimonianza eroica, ma anche di educazione delle istituzioni, riconversione e disarmo dei linguaggi e degli eserciti, pratiche di diplomazia, definizione di protocolli rigidi di utilizzo della forza.
Per tutto questo occorrono coraggio, mitezza, risolutezza, pazienza, affidamento, speranza. Disponibilità al dialogo tra popoli e nazioni, che superi gli antagonismi, che cerchi il bene nell’altro prima di ciò che divide o distingue, in modo da non perdere occasioni e non relegare l’altro a posizioni difensive o ostili. Cose non facili in un mondo non facile. Ma possibili. La storia di quanto avvenuto e avviene ce lo suggerisce.
*Fabrizio Filiberti
Presidente di “Città di Dio” Associazione ecumenica di cultura religiosa – Invorio (NO) che aderisce alla Rete dei Viandanti. Membro del Consiglio direttivo e del Gruppo di riflessione e proposta (Grp) dell’Associazione Viandanti.
*Giannino Piana
Già docente di etica cristiana alla Libera Università di Urbino e di etica ed economia presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino. Socio fondatore di Viandanti e membro del Gruppo di Riflessione e Proposta di Viandanti.
[Pubblicato in Viandanti il 17.3.2023]
[L’immagine che correda l’articolo è ripresa dal sito: www.avvenire.it]