Vito Mancuso
Abbiamo ancora bisogno della religione?
Reggio Emilia, 10 giugno 2022, XIII edizione delle Giornate della Laicità
Prendendo la parola come teologo e filosofo credente in queste “Giornate della laicità” dovrei sentirmi come una squadra che gioca fuori casa in un campo particolarmente ostile, per esempio come la Juve a Firenze. In realtà non è così, perché da anni mi definisco “teologo laico” e ho sempre considerato positivamente il concetto di laicità. Né sono il solo tra i credenti a farlo, si pensi a padre Balducci, padre Turoldo, don Gallo e molti altri, tra cui lo stesso papa Francesco che vede la minaccia principale non nella laicità ma nel clericalismo. Com’è possibile? Lo è perché i concetti di laicità e di religione si sono sviluppati nel tempo assumendo significati diversi e talora contrapposti. Spetta al pensiero individuare tali significati e dirimere i concetti, operazione quanto mai necessaria soprattutto in tempi confusi come i nostri.
Inizio dal concetto di laicità osservando che esso conosce tre ambiti di applicazione: la politica, la chiesa, la coscienza. La prima accezione fa riferimento alla distinzione tra politica e religione e alla conseguente reciproca non-ingerenza delle rispettive istituzioni: della Chiesa nelle competenze dello Stato e dello Stato nelle competenze della Chiesa. La seconda accezione designa i cristiani che non appartengono al clero e allo stato religioso. La terza rimanda a chi non crede in nessun Dio e desidera che tutti i valori e le leggi della propria vita non abbiano nulla a che fare con fedi ereditate da altri. A quest’ultimo riguardo esistono diverse gradazioni di laicità: vi è chi è aperto a ogni spiritualità (laicità come apertura mentale), chi dubita di tutto (agnosticismo), chi non crede in Dio ma rispetta la fede altrui ed è interessato a discuterne (laicità positiva), chi ritiene che le religioni siano tutte superstizioni e imbrogli da smascherare (laicismo).
Io cosa intendo per laicità? Essa per me è il metodo che governa il rapporto tra sfera interiore o privata e sfera esteriore o pubblica dell’esistenza. L’interiorità si esprime come filosofia di vita e come etica; l’esteriorità come diritto e come politica. Ebbene, la laicità è il metodo che consente di mediare tra le due sfere facendo sì che ognuno conservi le sue convinzioni ideali e al contempo conviva rispettosamente con chi la pensa diversamente. La laicità è il metodo che consente di mantenere le proprie convinzioni favorendo al contempo la più rispettosa convivenza. Per questo, per esempio, vi sono cattolici personalmente contro l’aborto che ritengono doverosa l’esistenza di una legge che ne regolamenti l’accesso. E sempre per questo vi sono atei che ritengono necessaria la conoscenza delle religioni e il conseguente insegnamento scolastico.
Venendo alla religione, anche il suo concetto è, a mio avviso, triplicemente configurato. La prima accezione designa le chiese e i loro riti, dottrine, obbedienze. La seconda designa la religiosità interiore, il sentire del cuore, il sentimento complessivo della vita detto spiritualità. La terza rimanda al senso originario del concetto latino di “religio”, che non è religioso in senso stretto bensì sociopolitico, in quanto indica il collante mentale che fa sentire “soci” gli esseri umani tra loro portandoli a formare una “societas”.
Di quale di questi tre concetti di religione noi abbiamo bisogno? Certamente del terzo, perché la sua assenza (oggi conclamata) sgretola il vivere civile: senza religio infatti non c’è societas, né tanto meno civitas. Gli antichi lo sapevano bene, visto che il secondo re di Roma, Numa Pompilio, diede all’urbe appena fondata una religio civilis per ottenerne compattezza morale e forza militare. E Roma divenne una divinità ed ebbe la storia che tutti sappiamo. Oggi invece noi come siamo messi? Heidegger descriveva così la situazione: “Il mondo sovrasensibile dei fini e delle norme non suscita e non regge più la vita. Quel mondo ha perso da sé solo la vita: è morto. Questo è il senso metafisico dell’affermazione «Dio è morto»” (da La sentenza di Nietzsche: “Dio è morto”, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, p. 233).
Oggi la morte di Dio, come scomparsa di fini e norme condivisi, è ancora più evidente rispetto ai giorni di Heidegger. E la nostra società si indebolisce sempre più. Forse è il segno che siamo destinati all’estinzione, come molte altre civiltà prima di noi? O forse è l’inizio di una grande trasformazione per una nuova “epoca assiale”? Io non lo so, credo nessuno lo sappia.
Per quanto riguarda gli altri due concetti di religione, il secondo configura la religione come fatto privato e a questo livello entra in gioco la più bella definizione di religione che io conosca, opera del matematico e filosofo inglese Whitehead: “Religione è ciò che l’individuo fa della propria solitudine”. Solitudine designa qui l’interiorità di ognuno, e a questo livello la situazione è sempre la medesima: qualcuno sente il bisogno di collegare la sua solitudine al senso complessivo del tutto e quindi di avere una religione, altri invece no, nessun collegamento e nessuna religione. Come mai? Da cosa dipende? Non lo so, di certo però non è l’ignoranza a istituire il legame e non è la conoscenza a strapparlo, perché altrimenti non si spiegherebbe la fede di scienziati come Planck, Heisenberg o di Fabiola Gianotti, l’attuale direttrice del Cern di Ginevra.
Rimane infine il primo concetto di religione, quello che rimanda alle religioni istituite. La dimensione comunitaria in realtà è essenziale al fenomeno umano in quanto tale, ed è proprio nella natura sociale che risiede l’ambiguità degli umani e quindi anche l’ambiguità delle loro religioni. L’aggregazione e il relativo senso di appartenenza può infatti generare socialità positiva sotto forma di comunità, movimento, chiesa, eccetera, ma può anche avere effetti negativi contrapponendo tra loro le varie istituzioni in aperta rivalità e anche appiattendo la libertà del singolo sul conformismo comunitario.
Visto però che ci troviamo nelle Giornate della laicità vorrei concludere con un padre del pensiero laico quale fu Norberto Bobbio. Durante la sua esistenza egli si definì sempre estraneo alla fede: “Io non sono un uomo di fede, sono un uomo di ragione e diffido di tutte le fedi” (“MicroMega” 2/2000, p. 7). All’indomani della sua morte però, il 10 gennaio 2004, su questo giornale venne pubblicato un testo, oggi noto come Ultime volontà, in cui Bobbio scrisse: “Non mi considero né ateo né agnostico. Come uomo di ragione non di fede, so di essere immerso nel mistero che la ragione non riesce a penetrare fino in fondo, e le varie religioni interpretano in vari modi”. Queste parole descrivono un rapporto fede-ragione del tutto diverso rispetto all’impostazione dominante. Di solito infatti si ritiene che la fede introduca al mistero, mentre la ragione ne faccia piazza pulita. Bobbio capovolge la prospettiva: è la ragione a comprendere che siamo “immersi nel mistero”, rispetto al quale le diverse religioni sono interpretazioni tutte imperfette. Egli supera così i due contrapposti dogmatismi, quello razionalista e quello fideista, e tanto la ragione quanto la fede appaiono impossibilitate ad afferrare il senso ultimo della vita. È la cosiddetta “dotta ignoranza”. Il che ci insegna che non dovremmo più dividerci tra chi crede e chi non crede, ma piuttosto unirci nell’esercizio del pensiero, con mitezza, senza nessuna volontà di primato, al fine di pensare e comprendere noi stessi “immersi nel mistero”.
Vito Mancuso, La Stampa 11 giugno 2022
(fonte: sito dell'autore)