Benvenuto a chiunque è alla "ricerca di senso nel quotidiano"



mercoledì 23 febbraio 2022

“Occorre mettere al centro le periferie delle Chiese”. Intervista a Donata Horak

“Occorre mettere al centro le periferie delle Chiese”.
Intervista a Donata Horak 
a cura di Rocco Gumina*



– L’intenzione del processo sinodale è, anzitutto, quella di dar voce a chi di solito si trova ai margini della vita ecclesiale. Quale metodologia sarà necessaria per includere i “marginali”?

Quando si parla di periferie, non si deve pensare solo alle periferie “fuori”; c’è infatti la tendenza ad interpretare i richiami del Papa riferendoli alla interpretazione del mondo, delle ingiustizie e degli squilibri geopolitici, determinati dal sistema economico e dalla cultura dello scarto. Più difficile è guardarci “dentro”: guardare, ascoltare e mettere al centro le periferie delle e nelle Chiese. I processi sinodali in corso (universale, a livello di conferenze episcopali e nelle diocesi) dovrebbero innanzitutto convertire il nostro sguardo, farci leggere la vita ecclesiale nella prospettiva delle categorie e delle situazioni periferiche, che pur sentendosi parte della Chiesa di Cristo e vivendo con fede e serietà il Vangelo, si sono sentite troppo spesso escluse a causa della loro condizione esistenziale, per il loro modo di amare, vivere e pensare.

Il sinodo sarà l’occasione per convertirci dagli irrigidimenti ideologici che si sono sedimentati nella nostra storia recente e che stanno allontanando molti dalla chiesa. Quanto al metodo, siamo in cammino e lo sperimenteremo camminando. Da un lato, infatti, non basta un ascolto paternalistico, fintamente interessato, che poi non dia ai “marginali” una reale e significativa rappresentanza nelle assemblee sinodali in cui si elabora il discernimento comunitario e si votano le riforme necessarie. Dall’altro lato, non possiamo ipotizzare una democrazia diretta in cui “uno vale uno”: un modello che mostra i suoi limiti già nelle società civili, figuriamoci in una società sui generis come la Chiesa, dove la posta in gioco non è far prevalere un interesse o una visione ecclesiologica, ma la fedeltà al Vangelo e a quello che lo Spirito chiede.

Quindi: preghiera, apertura del cuore, ascolto autentico e non formale della marginalità, permettere a ciascun/a fedele di prendere la parola, di esercitare il munus docendi che è dono e compito derivante dal battesimo, disponibilità a lasciarsi convertire dal sensus fidelium, e intendo non solo una conversione morale e spirituale, ma una conversione comunitaria della prassi e delle strutture ecclesiali, che richiedono sempre, in ogni tempo, di essere evangelizzate.

– Il cammino sinodale si prefigge anche di riconoscere le ricchezze, e la varietà, dei carismi ecclesiali. Insomma un’occasione per vivere quello che ordinariamente è chiamata ad essere la Chiesa?

La Chiesa è costitutivamente sinodale, non solo quando periodicamente celebra i sinodi. La Tradizione attesta che la pratica della sinodalità ha caratterizzato il modo di essere e di agire della Chiesa nel primo millennio. Ciò discende dalla sua struttura comunionale e dalla varietà dei carismi. La sinodalità «indica lo specifico modus vivendi et operandi della Chiesa Popolo di Dio che manifesta e realizza in concreto il suo essere comunione nel camminare insieme, nel radunarsi in assemblea e nel partecipare attivamente di tutti i suoi membri alla sua missione evangelizzatrice» (così afferma la Commissione Teologica Internazionale ripresa dal Documento Preparatorio del Sinodo dei Vescovi).

Se è vero, come dice Giovanni Crisostomo, che Chiesa e Sinodo sono sinonimi, ne consegue che la qualità della nostra sinodalità dice quanto la Chiesa è fedele alla sua identità in un determinato momento storico. La prassi sinodale è l’indicatore della docilità e apertura allo Spirito, della vitalità delle nostre chiese dove i carismi possono fiorire e dare frutto. E così torniamo alla questione della rappresentatività: gli organismi di partecipazione e consultazione dovrebbero essere composti in modo da riflettere le proporzioni di carismi, ministeri e vocazioni presenti nel popolo di Dio. Il CIC prescrive questo criterio della proporzionalità per i consigli pastorali (can. 512, §2), ma si dovrebbe estenderlo a tutti gli organismi di partecipazione.

Il criterio attuato solo parzialmente: la presenza di membri di diritto in ragione degli incarichi, dei ministeri o degli istituti che rappresentano, rende sovra-rappresentati i membri del clero, delle comunità religiose e delle associazioni riconosciute. Un altro elemento che vanifica il criterio dettato dal codice è che di fatto non si è ancora sviluppata nelle nostre chiese una diffusa ministerialità. I ministeri ecclesiali hanno il loro fondamento nel battesimo, ma vengono ancora pensati a partire dal sacramento dell’ordine, anzi, dal secondo grado del sacramento dell’ordine, perché i diaconi permanenti continuano a incontrare resistenze.

È mancata una educazione alla corresponsabilità di tutto il popolo di Dio, nel quale vescovi e presbiteri sono venuti a concentrare tutte le funzioni ministeriali, delegate all’occorrenza, occasionalmente e per supplenza. Laiche e laici svolgono di fatto i ministeri di accolito/accolita, lettore/lettrice, catechista, animatore/animatrice di liturgia, presidente della preghiera comunitaria. La mancata istituzionalizzazione non ha favorito la crescita della coscienza della propria auctoritas, della responsabilità di agire in nome e per conto della chiesa, promuovendone la crescita. Se pensiamo che fino al Motu proprio Spiritus Domini del 10 gennaio 2021 più della metà del popolo di Dio era esclusa dai ministeri istituiti, come se non fosse battezzata (mi riferisco, ovviamente, alle donne), si può comprendere quanto poco si sia realizzata la ministerialità nella nostra chiesa.

Di conseguenza, gli organismi in cui si vive la sinodalità non sono ancora espressione compiuta di tutta la ricchezza e la varietà del popolo di Dio. Io spero che i processi sinodali in corso inneschino una dinamica virtuosa tra assemblee sinodali e compagine ecclesiale: i sinodi sviluppano processi di consapevolezza e coscienza ecclesiale che portano a trasformare la prassi e la assunzione di ministeri e uffici, e tale partecipazione più consapevole e riconosciuta potrà a sua volta generare assemblee sinodali più vive e realmente rappresentative.

– Il sinodo darà anche la possibilità di riflettere sull’esercizio delle responsabilità e del potere all’interno delle strutture ecclesiali. Se la finalità da raggiungere non è la democrazia ecclesiale bensì una maggiore fraternità, quali strumenti vanno utilizzati per evitare la degenerazione del clericalismo?

Si torna al tema della rappresentanza. Due sono gli elementi problematici del metodo democratico applicato alla società ecclesiale: le deliberazioni a maggioranza e il cosiddetto “uno vale uno”, ovvero la banalizzazione del principio di uguaglianza. Per quanto riguarda il primo: il sinodo non può essere il teatro di una battaglia tra interessi, ideologie e progetti contrapposti, dove si cercano compromessi, accordi e strategie per formare una maggioranza purchessia e ottenere così la vittoria sulla minoranza. Quanto al secondo elemento, il fondamentale diritto di uguaglianza nella dignità e nell’agire dei/delle fedeli (can. 208) non può tradursi in organismi deliberativi in cui ogni soggetto è sullo stesso livello di chiunque, a prescindere da ministeri, carismi e abilità.

La società ecclesiale è asimmetrica e complessa. Anche considerarla composta soltanto da “chierici” e “laici” secondo uno schema piramidale verticale, è un eccesso di semplificazione non corrispondente alla struttura della chiesa-comunione, con tutta la sua ricchezza di ministeri e di competenze, con tutte le comunità intermedie (raggruppamenti di chiese particolari, associazioni, movimenti, comunità religiose, famiglie…) che devono trovare rappresentanza negli organismi di partecipazione e avere voce in capitolo nei processi di deliberazione.

A questo proposito, ci sono aspetti della vita democratica che avrebbero molto da insegnare: la mediazione, la franchezza nel confronto anche quando è conflittuale, la capacità di gestire il pluralismo delle idee e delle scelte. Questo sano parlamentarismo non è riducibile allo scontro maggioranza-minoranza, e quando si sente ripetere come uno slogan “il sinodo non è un parlamento”, dimostriamo di non conoscere la complessità delle dinamiche democratiche. Per fare qualche esempio pratico: i consigli di partecipazione sono composti in buona parte da nominati, e – quanto agli eletti – non si elaborano regolamenti elettorali che garantiscano la rappresentatività proporzionale alle componenti del popolo di Dio, che comporterebbe il rispetto delle quote di genere, di età, di appartenenza ecclesiale e sociale, di competenza.

Le competenze e le abilità nella chiesa sono strettamente correlate alla vocazione e ai ministeri di ciascuna persona battezzata: negli organismi di partecipazione dovrebbe esprimersi l’autorevolezza delle diverse voci, mentre troppo spesso le persone sono chiamate semplicemente a ratificare le deliberazioni già assunte, senza contribuire alla formazione di una decisione e spesso senza avere avuto il tempo di una adeguata informazione. Infine, il conflitto, che fa parte di ogni sana comunicazione, deve essere gestito e per questo occorrerebbero delle regole e delle istanze di mediazione.

Insomma, realizzare la sinodalità comporta un lavoro di conversione delle istituzioni e delle leggi che le regolano. Veniamo quindi alla questione del potere. Chi fa le leggi? In democrazia vige il principio della divisione dei poteri; nella chiesa, invece, i Vescovi detengono la totalità dei poteri. Mentre il potere esecutivo-amministrativo e il potere giudiziario sono delegabili, il potere legislativo rimane esclusiva prerogativa dei Vescovi. Dirò di più: appartiene ai vescovi in quanto singoli: l’ordinamento canonico privilegia l’autonomia del vescovo nella sua chiesa particolare rispetto all’esercizio collegiale del suo ministero a livello di regione ecclesiastica, conferenza episcopale, chiesa universale.

Le conferenze episcopali hanno potere legislativo limitato, i sinodi dei vescovi sono organismi consultivi. La legge permetterebbe un esercizio più collegiale del potere legislativo: ad esempio, si potrebbero celebrare i concili particolari, ma tale possibilità resta sulla carta, disattesa, a dimostrazione della difficoltà di ripensare il ministero del vescovo in comunione con la porzione di popolo di Dio a cui appartiene, e in comunione con le altre chiese attraverso una collegialità effettiva. Una chiesa comunione, realtà complessa, dove carismi e ministeri delle persone battezzate vengono riconosciuti e rappresentati nei luoghi di riflessione teologica e di decisione, è l’antidoto al clericalismo che impoverisce la comunione e genera tanta solitudine, anche in coloro che sono investiti di potere.

– La riflessione teologica, specie quella al femminile, quale apporto potrà offrire al cammino sinodale?

Torniamo alle periferie, da cui avevamo preso le mosse. Le donne sono una marginalità di fatto, perché storicamente escluse e discriminate a causa del patriarcato che si è innestato sul clericalismo. Il clericalismo è una degenerazione mondana della concezione del potere, che viene rivestito di un’aura di sacralità per giustificare la sua concentrazione nelle mani di una categoria di fedeli, ovvero di coloro che ricevono il sacramento dell’ordine, tutti maschi.

Questa concezione del potere e dei rapporti ecclesiali ferisce la comunione ed è estranea alla tradizione. Il clericalismo, di per sé, non ha genere: anche una donna può essere clericale se rinuncia ad esercitare i munera battesimali, se delega passivamente o spiritualizza la sua posizione subalterna come via di santificazione superiore all’esercizio del potere. Oggi, per esempio, trova molto consenso nominare la “quota rosa” in ruoli di prestigio, anche di potere reale, senza però che questa presenza porti un minimo cambiamento nell’assetto istituzionale della distribuzione dei poteri.

Non è dunque una presenza femminile purchessia che potrà portare un apporto significativo al cammino sinodale. Purtroppo questo pensiero si riscontra spesso anche nella società civile: nel recente dibattito pubblico che ha preceduto l’elezione del Presidente della Repubblica veniva evocata “una donna”, anonima quanto inconsistente promessa di un rinnovamento delle istituzioni. In ogni ambito, e nella Chiesa in particolare, si richiede alle donne tanta consapevolezza e competenza, spesso date per scontate negli uomini.

Veniamo da secoli di esclusione delle donne dal sapere teologico, e ancora oggi le carriere accademiche e gli studi delle donne incontrano ostacoli inimmaginabili per i colleghi uomini. Tuttavia è innegabile che la riflessione teologica delle donne sia oggi uno degli ambiti più vitali e interessanti, quasi che la condizione di marginalità dischiuda possibilità di un pensiero nuovo e rigenerativo per la chiesa tutta. Altre marginalità premono ai confini: categorie di persone battezzate e fedeli nella sequela di Cristo che però non hanno voce in capitolo, che si sentono condannate a priori, che rischiano di venire ascoltate paternalisticamente senza che le chiese siano davvero disposte a convertire il linguaggio, la prassi liturgica, la catechesi…

Il pensiero delle donne è segnato dal margine e dalla parzialità, ma anche gli uomini sono parziali. Sarà liberante anche per loro ripensarsi come parziali in relazione con la complessità; questo porterà a una migliore comprensione della comunità, del perché possiamo custodire il vangelo ricevuto soltanto in una chiesa comunione, asimmetrica non come lo è una piramide di potere, ma come lo è la superficie rugosa della terra, fatta di tanti elementi diversi, a volte difficili da appianare, ma proprio per questo dinamici e vitali nelle loro interazioni. Una chiesa sinodale e tutta ministeriale è il sogno non del Papa, non delle donne, né di chi ha un ministero, ma è il sogno di Dio che ci ha costituiti comunione, organismo vitale che può nella storia far fiorire le esistenze delle donne e degli uomini, facendo proprie lo loro gioie, speranze, tristezze e angosce, tutto ciò che è autenticamente umano e che appartiene al cuore di chi segue Cristo.

*Rocco Gumina insegna Religione nell'arcidiocesi di Palermo. Dal 2014 è presidente dell'associazione culturale "A. De Gasperi". Pubblica, su riviste specialistiche, articoli che sviluppano temi legati alla relazione fra teologia, spiritualità e politica.
(fonte: Tuttavia 19/02/2022)