"Natale, l'«impossibile» miracolo dell'amore"
di mons. Bruno Forte
«Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?»
È inquietante questa domanda di Gesù nel vangelo di Luca (18,8). Sembra spiazzare ogni falsa sicurezza nel cuore di chi crede. È un invito a non dare nulla per scontato nel nostro rapporto con Dio, a viverlo, anzi, com'è in ogni vero rapporto d'amore, nel rischio della libertà e nella novità da conquistare ogni giorno. È una sfida a evitare la caduta nell'abitudinario per riscoprire la bellezza dell'incontro, la radicalità del legame che unisce cuore a cuore e l'attesa sempre nuova che lo caratterizza. Protagonisti di questo incontro siamo noi, col nostro cuore inquieto, e il Dio che non ha esitato a farsi uomo per farci sentire il Suo amore appassionato, la Sua prossimità alle fatiche nella nostra condizione mortale e all'audacia dell'amore, che accetta di giocarsi sull'eterno nella fragilità del tempo. È in questo rischio che sta la bellezza della fede: ed è solo accettando di correrlo che si può anche sperimentare lo spalancarsi dell'abisso divino, l'abbraccio benedicente che risponde alla nostra invocazione e alla resa della nostra ricerca. È quanto provavo a esprimere in questi versi, scritti al passaggio fra i due millenni, di cui mi par di sentire ancora viva l'attualità:
«Forse verrai / quando i miei occhi / cercheranno nel buio / la via dell'orizzonte. / Forse, di quando in quando / sembrerà vana l'attesa / alla mia fede. / Eppure, questo ”forse” / sarà lo spazio / della mia salvezza: / per esso / liberamente / potrò riconoscerTi, / potrà il mio cuore / liberamente amarTi, / e la preghiera / liberamente / invocarTi nella notte. / Forse, più grande / sarà l'ansia di vederTi, / più forte la stanchezza / dell'attesa. / Sta qui l'ultimo rischio, / la dignità umile / del mio possibile, impossibile / amore? / Forse verrai / quando i miei occhi / cercheranno nel buio / la via dell'orizzonte. / E io Ti attenderò. / E il buio / sarà per me / la via dell'orizzonte. / Fin quando Tu verrai...» (Il libro del viandante e dell'amore divino, Milano 20082, 142s).
È questo il senso del tempo liturgico dell'Avvento: non semplice ripetizione di un ciclo, ma il ravvivarsi del desiderio e dell'attesa, il riscoprire l'Altro divino e trascendente come il Dio che viene, l'imminenza che sovrasta e rinnova, aprendoci alle sorprese della speranza e riconoscendo l'inesorabile caducità di ciò che passa in attesa di Colui che viene e del suo regno, che non passerà mai. Celebrare il Natale del Dio con noi non è semplice atto della memoria, ripetizione di gesti trasmessi nella catena della tradizione e degli affetti, ma novità di una venuta in un oggi - il nostro oggi - diverso da ogni altro e proprio così importante per noi. È un rinnovato prendere coscienza del cammino compiuto e di quello che ci aspetta, un fare bilanci sulla crescita di ciascuno di noi in ciò che più conta, la nostra capacità di amare e di compiere il bene con generosità oltre ogni calcolo. È un guardare ai nostri rapporti con lo sguardo di chi ne misura l'autenticità non sul guadagno che possiamo riceverne, ma sulla verità di quanto mettiamo in gioco e riusciamo a trasmettere e ad accogliere in ricchezza di umanità. È un aprirci al futuro non solo come proiezione del nostro presente, prolungamento dell'“homo absconditus” che è in ciascuno di noi, ma anche e soprattutto come futuro assoluto, indipendente dalla nostra volontà e dai nostri calcoli, che ci viene incontro come destino e come patria ultima.
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