MARIO GIRO*
Imparzialità attiva.
Ecco come funziona la strategia vaticana
Canali aperti, in attesa che giunga il momento opportuno perché il Vaticano intervenga.
Il papa poi continua con gesti di pietà per non rinunciare all’umanità in mezzo all’orrore della guerra.
La Chiesa di Francesco fa il suo: non crede all’ineluttabilità della guerra e dell’odio infinito.
Canali di amicizia e gesti di umanità: con questi strumenti papa Francesco tiene aperta la via del dialogo e della trattativa tra Russia e Ucraina. È convinzione del papa che alla fine ci si siederà attorno ad un tavolo per negoziare: meglio quindi affrettare e favorire questo momento.
Come i suoi predecessori, anche Francesco ritiene che le armi non portino a nulla, anzi peggiorino la situazione, scavando un solco sempre più profondo tra i contendenti. È la ragione per la quale tradizionalmente la chiesa cattolica non condanna (in questo caso non condanna i russi) e non si schiera: come in tante altre simili situazioni di conflitto, la chiesa rimane nella posizione di “imparzialità attiva” che ha scelto da oltre un secolo.
Chi vede in questo una rottura o una novità (magari attribuendole a ragioni politiche o ideologiche) non conosce la storia: già Benedetto XV aveva parlato contro la prima guerra mondiale, denunciandola come «inutile strage». Gli arcivescovi cattolici di Parigi e Vienna avevano cercato di portare il pontefice ognuno dalla propria parte (condannando l’altra) ma per la chiesa di Roma quel conflitto, come ogni altro, era di fatto una guerra civile, una guerra tra fratelli: un terreno impossibile per la chiesa universale. In nessun caso si trattava di benedire le bandiere di guerra o le armi delle nazioni.
Tutti i papi successivi hanno approfondito tale teologia della pace, nessuno escluso. Giovanni XXIII fu l’artefice della prima enciclica sulla pace (Pacem in Terris): oltre che intervenire nella crisi dei missili di Cuba, ricevette in Vaticano la figlia di Krusciov attirandosi anche lui parecchie critiche.
Giovanni Paolo II si mise contro la guerra in Iraq e fu l’artefice delle transizioni pacifiche (si pensi al Cile di Pinochet) come pure della caduta del comunismo dall’interno, cioè senza guerra e mediante il dialogo politico.
LA PACE SECONDO IL PAPA
Papa Francesco ha definito la guerra «sacrilega», senza fare distinzioni sulla qualità del conflitto. Di conseguenza ai papi le critiche sulla pace non destano sorpresa, nemmeno se vengono dall’interno della chiesa cattolica stessa: è da oltre un secolo che ciò accade.
Sulla pace il papato, proprio per il suo carattere universalistico, è più avanzato delle chiese nazionali. Ancora meno stupore se le disapprovazioni provengono dalle chiese ortodosse che, com’è noto, sono particolarmente influenzabili dai nazionalismi. La posizione di papa Francesco si basa anche su un fatto oggettivo: nessuna guerra degli ultimi trent’anni è servita a qualcosa, ha risolto il problema per cui era stata iniziata o ha portato a paci stabili.
In Vaticano è maturata l’idea che la guerra sia divenuta uno strumento obsoleto e inadatto a risolvere le crisi o i contenziosi internazionali: lo strumento militare non può mai “fare giustizia” né creare una “pace giusta” in alcun modo, come la storia insegna.
Consapevole di tali posizioni, il presidente Volodymyr Zelensky si è voluto confrontare a viso aperto con il papa, portando le sue motivazioni: la legittima difesa e il tentativo di recuperare tutti i suoi territori. Il papa non è unilaterale davanti alle sofferenze del popolo ucraino né mette i due paesi sullo stesso piano: ha ripetutamente dichiarato in pubblico la sua vicinanza al «martoriato popolo ucraino», ma non evita di rivolgersi anche al «popolo russo» perché la guerra si interrompa. Questo è, secondo lui, il mantenere i canali aperti in attesa dell’occasione propizia.
LA TREGUA POSSIBILE
Secondo Francesco la tregua non sarebbe in alcun modo una resa ma l’inizio dello spazio del dialogo verso una pace più duratura. Il papa guarda già oltre, a dopo la guerra, quando non solo bisognerà ricostruire ma soprattutto operare per la riconciliazione e il convivere.
È chiaro che né ucraini né russi attualmente desiderano parlare di questo: entrambi sono ancora nella modalità “guerra per la vittoria”. Ma secondo papa Francesco questa fase passerà, verrà il momento del re-incontro e vuole che ci si prepari. È lo stesso pensiero democratico ad indicarlo: non limitarsi a vincere ma pensare al domani.
Ciò che caratterizza le democrazie, differenziandole dai regimi autoritari, è proprio il fatto che la democrazia non insegue la vittoria (sempre effimera o provvisoria) ma guarda al domani, a come si può vivere (o rivivere) assieme, a come si ricostruisce l’architettura di sicurezza che permetta di evitare nuove guerre. C’è chi sostiene che senza una vittoria sulla Russia attuale non ci sarà mai pace: gli strumenti diplomatici servirebbero solo ad rimandare la reiterazione dell’aggressione. Ciò non tiene conto del fatto che non si può decidere per gli altri: non possiamo avere la Russia che vogliamo, dobbiamo tener conto della Russia reale.
Il vero cambiamento democratico della Russia -da tutti auspicato- avverrà solo dall’interno e non forzato dall’esterno, come accade per tutti i paesi. La chiesa ha una troppo grande esperienza della storia per non aver appreso tale lezione.
Imparzialità attiva significa anche spendersi molto per aiutare l’Ucraina aggredita: dal febbraio 2022 la chiesa cattolica è stata molto attiva dal punto di vista umanitario con aiuti di ogni tipo (a cui in Italia Sant’Egidio ha fortemente contribuito), scambi di prigionieri ed oggi l’impegno –ribadito a Zelensky- di riportare a casa i bambini sequestrati in Russia. Allo stesso tempo la chiesa fa la sua parte cercando la via per una nuova intesa: non crede nella guerra infinita né nell’odio illimitato e perpetuo.
Già tante volte l’Europa ha vissuto tali ossessioni e ancor oggi ne è alle prese: come reazione papa Francesco non benedice i nazionalismi ma prega e opera per l’unità del genere umano.
MARIO GIRO*
Amministratore di Dante Lab, è stato vice presidente di SACE; professore di relazioni internazionali all'Università per stranieri di Perugia; sottosegretario agli esteri nel governo Letta e viceministro degli esteri nei governi Renzi e Gentiloni, esercitando le deleghe sulla Cooperazione allo sviluppo, l’Africa, l’America Latina e la promozione della lingua e cultura italiana. Ha iniziato gli Stati generali della Lingua e della Cultura e le conferenze Italia-Africa.
(fonte: Domani 18/05/2023)