MEDITERRANEO,
IL CIMITERO DEL MONDO
Domenico Quirico
Ci sono parole che non possiamo più pronunciare con la stessa imparzialità di un tempo. Perché il fallimento, il mal fare degli uomini in ciò che esse indicano, ha attaccato la sua infezione alla lingua. E allora ogni tanto bisogna togliere qualche espressione, ripulirla prima di osare usarla di nuovo. Una di questa parole è accoglienza. A cui oggi si appiglia una di quelle sciagurate occasioni retoriche che dovrebbero, negli intendimenti esplicitamente ipocriti, rimpolpare, ovviamente, la inevitabile Memoria. Ma servono solamente a rialzare con qualche badilata di chiacchiere il tumulo sotto cui riposano i buoni proponimenti.
Un po’ come un tempo a scuola si celebrava la «giornata degli alberi» costringendo legioni di ragazzi a scrivere banalità sulla bellezza della natura: mentre la si seppelliva impunemente fuori dalle finestre dell’aula con tonnellate di cemento.
Nel 2013 al largo di Lampedusa (già, ecco un altro anniversario!) perirono 368 migranti tra cui 83 donne e 9 bambini. All’epoca legioni di giornalisti e di squadre della televisione furono inviati a raccontare la tragedia. Sì. Era una notizia. Oggi «i barconi» continuano ad affondare nelle «brevi» redazionali di poche righe o nella ventesima notizia del giornale radio. Non è colpa dei giornalisti. Le cause perse non interessano, sono cenere o segatura. In mezzo ci sono venticinquemila morti che riposano in quel cimitero senza lapidi e nomi che è il Mediterraneo. Quando giungiamo di fronte a uno scenario come questo ci accade che la parola accoglienza venga risucchiata in questi numeri. E senza la parola si è soli, soli con il proprio silenzio di fronte al silenzio di quei morti.
È la più oscura crisi morale che l’Europa abbia conosciuto prima di quella che si impone oggi con la guerra e il rischio atomico, il tempo in cui la spaesatezza è diventata davvero un destino mondiale. Lo dobbiamo ammettere apertamente: l’Europa spirituale, democratica, umana ha capitolato. Capitolato per debolezza, per pigrizia, per indifferenza, per egoismo, per banale indegnità. Oggi se fossimo onesti con noi stessi e non arroccati dietro il più lercio dei peccati, l’ipocrisia, dovremmo celebrare il giorno del respingimento.
Chi ha cercato di raccontare con onestà i migranti vede il fumo degli articoli e dei libri bruciati salire al cielo, chi, eroica minoranza, ha cercato di restar fedele all’umile motto aiuta chi ha bisogno, ha allestito i corridoi umanitari, non ha fatto dei migranti pretesto, burocrazia o peggio buon affare, deve riconoscere che è stato battuto. Suvvia facciamoci aiutare dalla ricorrenza, rendiamola per una volta utile. Dobbiamo compiere il dovere più nobile dei soldati sconfitti: riconoscere la disfatta.
Sì ci hanno battuti: ci hanno battuti (dopo venticinquemila morti!) i minuscoli Nelson del blocco navale, quelli del messianismo falso e bugiardo dell’aiutiamoli a casa loro, quelli, li pensavamo insospettabili, delle laute mance e delle strette di mano ai carcerieri della Sirte, quelli dell’astuto realismo del non possiamo ospitare tutta la disperazione del mondo. Nel Mediterraneo, senza cerimonie e discorsi, abbiamo seppellito anche i due principi che erano la forza e la ragione di esistere della creatività europea, la libertà e l’individuo. La libertà di cercare la propria condizione umana sfuggendo al destino della guerra, della povertà, della violenza, del fanatismo, dell’immobilità. E la sacralità dell’individuo perché in più di dieci anni la prima negazione è stata di mantenere i migranti massa, numeri, statistiche, indici grafici; e mai, appunto, individui. E con le masse i mestatori e i bugiardi del «prima noi!» sono sempre a loro agio. La vittoria degli xenofobi è nell’aver cancellato l’immagine dell’uomo creata dall’umanesimo del diciassettesimo e del diciottesimo secolo. Il Novecento, quello, era già oppresso dal buio.
Allora, in realtà, non abbiamo accolto nessuno. I migranti li abbiamo pesati, come facciamo per tutto: le guerre, quella da fare e quelle no, gli autocrati da omaggiare o da abbattere, le miserie da alleviare o da perpetuare. Questi ci servono e questi no. Semplicemente. Gli ucraini per esempio: accolti senza burocrazia, senza lungaggini, senza mugugni, senza problemi di palanche. Come è giusto. Sono europei, vittime di una guerra che combattiamo contro il Male di turno anche noi. Ci servono. Per ora.
Come gli afgani: i centomila o poco più afgani «nostri», accolti perché hanno lavorato per noi nel dilapidato ventennio americano. E gli altri? Quelli che da vent’anni stavano nella giungla di Calais, quelli che arrivavano nascosti sotto i camion o risalivano le montagne balcaniche? Sono tornati nel nulla. Non servivano più. Dimenticati in un mese. E i siriani? Il milione dei prescelti dalla Merkel servivano. Gli altri no.
E c’è tutto il resto, quel macinato della Storia che scorre fuori dal setaccio, gli africani, gli inutili, gli eterni proletari incompatibili con lo scintillio della nuova rivoluzione industriale, quelli che per noi possono dare solo pane amaro? Quelli li abbiano regalati al respingimento, alle vedette libiche, al sottosuolo delle periferie, visibili sì ma inesistenti, anime morte.
Abbiamo perso il diritto di scrivere, parlare, filmare i migranti. L’abbiamo perso per quello che abbiamo fatto e per quello che non abbiamo fatto in questi anni seguiti alla loro irruzione, nel 2011, nelle nostre vite. I loro viaggi disperati e incredibili, odissee di anni segnate dai morti, erano una interrogazione incessante che disfaceva i nostri tranquilli punti di riferimento di mondo migliore.
Nel 2011 mi imbarcai con i migranti e arrivai a Lampedusa. Oggi non avrei diritto di ripetere quel viaggio, non potrei salire sul barcone. L’ho perso quel diritto per l’inutilità di quel racconto.
Oggi solo i migranti hanno il diritto di parlare di se stessi e di raccontarsi, se vogliono. A noi in questa parte del mondo resta solo la pena di tacere
(Pubblicato su La Stampa il 03.10.2022)