"Quel che unisce parola e preghiera"
di Massimo Recalcati
(Pubblicato su "La Stampa" - 20 giugno 2021)
Secondo Lacan ciascun essere umano struttura il proprio desiderio a partire da una domanda che attraversa la vita di ogni bambino sin dai primi tempi della sua esistenza: «Puoi perdermi?». Questa domanda implica innanzitutto una interrogazione del bambino rivolta al desiderio dei suoi genitori: cosa sono per voi? È una domanda che suppone un’invocazione, finanche una preghiera: potreste dimenticarmi come fossi un pacco, un oggetto, una cosa qualunque, potreste fare a meno di me, potreste vivere escludendomi dalla vostra vita, vivere come se io non ci fossi? In primo piano, come si vede, è qui il desiderio di essere desiderato dal desiderio dell’Altro. È una tesi che Lacan riprende alla lettera da Hegel: il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro. Nella domanda angosciata del bambino: «Puoi perdermi?» vediamo fissarsi primariamente la natura eminentemente dialettica del desiderio umano. Senza la presenza dell’Altro la vita non si umanizza, resta nuda vita, vita spogliata di senso, vita dissociata dalla vita. «Puoi perdermi?» è, dunque, un’invocazione, una preghiera che originariamente il piccolo dell’uomo rivolge al proprio Altro. Essa si annuncia a partire dal grido che accompagna la sua venuta al mondo. Il grido è, infatti, la forma patemica che assume il desiderio umano, la sua prima drammatica incarnazione. Nel libro biblico di Giobbe la vita è ricondotta a questa sua matrice prima dall’esperienza sorda della sofferenza. In primo piano è il grido come forma radicale dell’invocazione della vita dell’inerme. Ma, se ci pensiamo, è la parola stessa a portare con se stessa l’istanza del grido. Parlare, infatti, è sempre rivolgersi a qualcuno, è sempre aprirsi al mistero della risposta dell’Altro. Accade a Giobbe ma accade ad ogni essere umano. La nostra parola è sospesa alla risposta dell’Altro. È questa la relazione stretta che sussiste tra la parola e la preghiera. La parola come la preghiera suppone un destinatario, un Altro che ascolta e che con la sua risposta significa retroattivamente il significato della nostra stessa parola. È questa una possibile definizione della vita umana. Non solo, come dichiarava classicamente Aristotele, l’uomo è un animale sociale (tesi che Freud ha messo profondamente in discussione mostrando la natura primordiale dell’aggressività umana), ma l’uomo è, innanzitutto, un animale che prega, un animale che attraverso la sua preghiera invoca una risposta dall’Altro: «Puoi perdermi?». In tutta la tradizione biblica la preghiera dell’uomo si confonde con il suo grido sino a culminare nel grido di Gesù crocifisso che si rivolge al proprio padre nel tempo del suo più estremo abbandono: «Padre mio, perché mi hai abbandonato?». Puoi tu, dunque, davvero perdermi? Per questa sua radice nell’invocazione del grido, il desiderio umano non può essere confuso con il semplice bisogno. Mentre questo tende a risolvere lo stato di tensione interna da cui sorge attraverso il consumo dell’oggetto (il pane placa la tensione fisiologica della fame, l’acqua quella della sete), il movimento del desiderio non si dirige verso nessun oggetto poiché non esiste oggetto del mondo che sia capace a soddisfare una volta per tutte il suo slancio. Piuttosto il desiderio umano può trovare il suo appagamento (anche se provvisorio) nell’incontro con il desiderio dell’Altro. Se il bisogno rapporta unilateralmente il soggetto ad un oggetto, il desiderio, come spiega Hegel, rapporta reciprocamente un soggetto ad un altro soggetto. In questa relazione intersoggettiva l’istanza del desiderio esige innanzitutto di essere riconosciuta come tale. Sicchè il desiderio umano trova la sua soddisfazione simbolica solamente quando è desiderato da un altro desiderio. Per questo Kojève definiva la nostra storia come la storia di tutti i «nostri desideri desiderati». La vita umana non vive, infatti, di solo pane ma si nutre costantemente di segni. Quali segni? Quelli che il bambino cerca quando pone all’Altro la sua domanda prima: «Puoi perdermi?». Dunque i segni del desiderio dell’Altro, il segno nell’Altro che non può perdermi, che la sua esistenza non può esistere senza la mia. Come si vede l’istanza del desiderio s’incrocia qui con quella dell’amore: l’amore, come il desiderio, non domanda semplicemente il possesso di oggetti, fosse anche del corpo dell’amato, ma domanda il segno della mancanza. Alla domanda «puoi perdermi?», l’innamorato risponde senza incertezze: «no, non posso perderti». Il che significa che l’amato ha scavato in lui una mancanza irriducibile, è divenuto ciò di cui l’amante manca, è ciò che egli, appunto, non può in nessun modo perdere. È il significato della celebre formula lacaniana secondo la quale «amare è dare all’Altro quello che non si ha». Donare quello che si ha non è difficile, soprattutto se si ha in abbondanza. Diversamente dare quello che non si ha implica una torsione particolare: il soggetto non dona qualcosa ma dona la sua mancanza, fa segno all’Altro che non lo può perdere perché la sua perdita comporterebbe la fine del suo mondo.
Senza il segno dell’amore da parte dei propri genitori la vita di un figlio cadrebbe in una buca buia. Senza il segno dell’amore da parte dell’amato la vita dell’amante non troverebbe pace. È per questa ragione che la fine di un amore comporta non tanto e non solo la perdita dell’amato, ma la perdita del mondo intero dei Due amanti. Senza amore il mio mondo, come la mia vita, perde totalmente di senso. Io non sono più atteso da nessuno perché non manco più a nessuno. Nessuno mi aspetta sulla porta, perché per nessuno io posso più essere la sua mancanza. Alla nostra domanda: «Mi puoi perdere?», l’Altro ha risposto risolutamente e brutalmente: «Sì!, ti posso perdere». La nostra uscita di scena non lascia così alcuna mancanza nell’Altro perché la sua vita continua autonomamente senza di me. Accade irreversibilmente quando un amore finisce. È fatale e inevitabile. Non esiste amore se non attraverso l’esperienza assoluta della libertà che, come tale, implica sempre la possibilità della fine di un amore: l’Altro può perdermi senza perdere la sua vita, senza più sentire la mia mancanza. È un suo assoluto diritto. Ma il grido che ci accompagna sin dall’origine della nostra vita torna inevitabilmente a farsi sentire. Per questo, probabilmente, gli uomini hanno da sempre pregato. La tradizione biblica lo ha reso evidente: la preghiera fa esistere almeno uno nell’universo che non può perdermi, che ama incondizionatamente la mia vita essendo la mia vita, come quella di ogni sua creatura, degna di essere amata, assolutamente e immensamente insacrificabile.
(Fonte: sito dell'autore)
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