«IL TUO SUICIDIO È FERITA APERTA,
PESO SUL MIO CUORE E SU QUELLO DI TORINO»
Su invito della Comunità di Sant'Egidio, tante persone si sono ritrovate con l'arcivescovo di Torino, monsignor Cesare Nosiglia, per pregare in suffragio del giovane africano della Guinea Conakry selvaggiamente picchiato da tre italiani a Ventimiglia, trasferito all'ombra della Mole, chiuso nel Centro di permanenza e rimpatrio, uccisosi qualche giorno fa.
È «una ferita aperta» e «pesa profondamente sul mio cuore, ma anche su quello di tutte le persone di buona volontà, impegnate nell’aiuto ai migranti. E di fronte a questo sento il dovere di alzare la voce». È visibilmente turbato monsignor Cesare Nosiglia, arcivescovo di Torino mentre, su invito della Comunità di Sant’ Egidio, presiede la preghiera in memoria di Musa Balde, un ragazzo di 23 anni, originario della Guinea, morto tragicamente lo scorso 23 maggio, togliendosi la vita nel Cpr (Centro di permanenza e rimpatrio) del capoluogo piemontese. Una storia di immenso dolore, che fa scendere, sulla città dei santi sociali, un velo di sgomento e grande tristezza. Già in passato il giovane guineano era stato vittima, a Ventimiglia, di una violentissima aggressione di matrice xenofoba: era stato preso a pugni e a bastonate da tre italiani. Difficile immaginare quante ferite – e quanto profonde – un fatto di questa gravità possa lasciare nella mente e nella vita di una persona. Poi, a Torino, il periodo di detenzione nel Cpr, le condizioni durissime, l’ansia per il futuro, la solitudine e la paura. E infine il gesto estremo, senza ritorno.
Nella chiesa dei Santi Martiri, punto di riferimento per la Comunità di Sant’Egidio a Torino, tante persone si sono ritrovate per pregare e ricordare Musa. La commozione era grande. La morte di questo giovane uomo, ha osservato monsignor Nosiglia «fa emergere una lunga catena di dettagli, sempre dello stesso colore: indifferenza, solitudine, abbandono, violenza». L’omelia dell’ arcivescovo è stata un duro affondo: nessun dito puntato, nessuna retorica, ma una dolorosa riflessione che ha chiamato in causa la città intera e non solo. Nonostante una Torino «generosa e capace di mettere in campo tante risorse per sostenere gli ultimi, quella che ci viene buttata in faccia è una realtà terribile. Non possiamo immaginare di costruire una città nuova, un progetto di rilancio di Torino, se non ripartiamo dalla condizione di questi fratelli ultimi. So benissimo che tante realtà del nostro Paese vivono la stessa problematica, a volte in modi anche più accentuati. Ma qui l'accoglienza, l'inclusione hanno sempre fatto parte dello stile stesso della città. Mi sento di chiedere a tutti un sussulto di coscienza».
Il presule si è poi soffermato sulla condizione dei Cpr. Questi luoghi di detenzione hanno cambiato più volte nome nel corso della loro storia: Centri di permanenza temporanea, Centri di identificazione ed espulsione, oggi Centri di permanenza e rimpatrio. Eppure, evidentemente, nonostante le acrobazie lessicali, la sostanza non è mai cambiata. «A quanto mi dicono, la sofferenza, la paura e il dolore anche fisico provocato da gesti inconsulti come oggetti ingoiati, tagli, labbra cucite, ustioni, scioperi della fame e persino tentativi di suicidio si susseguono in questo ambiente. Mi pare che questa realtà sia del tutto separata dalla città, per cui ben pochi possono incontrare gli immigrati che vi sono rinchiusi e la loro permanenza isolata rischia di aggravare la già complessa e difficile situazione da cui questi nostri fratelli provengono». «Perché» si è domandato l’Arcivescovo «non è possibile un raccordo con le associazioni religiose o laiche della città? Perché, come avviene in tantissimi altri luoghi, istituti di pena compresi, non si permette ai volontari di incontrare i migranti e intraprendere un dialogo? Perché un Cpr è un luogo del tutto avulso dal resto della città, nel quale non sappiamo che cosa succede?».
L’arcivescovo ha poi ricordato come la Chiesa sia chiamata a soccorrere in prima persona gli ultimi, senza però potersi sostituire alle istituzioni e alle autorità, che hanno il dovere di vigilare sul rispetto dei diritti umani e su quanto garantito dalla Costituzione. «Chiediamo perdono» ha concluso «per Musa e per tanti altri fratelli, perché non abbiamo fatto ciò che era necessario e non abbiamo dato loro ciò di cui avevano bisogno».
«Ci vogliamo fermare, con rispetto, con pudore e con affetto, per Musa e per tanti che, come Musa, potrebbero essere nostri figli e nostri fratelli» ha detto Daniela Sironi, responsabile della Comunità di Sant’ Egidio per il Piemonte. E nei giorni scorsi, attraverso il giornale diocesano La voce e il tempo anche Sergio Durando, responsabile torinese della Pastorale Migranti, ha voluto riflettere sulla tragica fine del giovane guineano. «La morte di Musa apre uno tra i tanti interrogativi scomodi per il nostro Paese e per il nostro ordinamento giuridico, su come l’immigrazione viene gestita, sui costi “economici” e “umani” di certe “strutture di morte”. Ancora una volta perde la vita un giovane in cerca di un futuro dignitoso, la cui speranza si è frantumata con il diniego del riconoscimento dei documenti. In questi casi subentra la povertà e la vulnerabilità di chi diventa “irregolare” e si ritrova per strada. Lo sguardo di pregiudizi, diffidenza, indifferenza lo si percepisce addosso, su un corpo privato di dignità».
Musa Balde, 23 anni, della Guinea Conakry, picchiato da tre italiani a Ventimiglia, trasferito nel Centro di permanenza e rimpatrio di Torino dove si è suicidato. Foto tratta dalla pagina Facebook della Comunità di Sant'Egidio-Torino. In alto: monsignor Cesare Nosiglia, 76 anni, arcivescovo di Torino. Foto Ansa.
(fonte: Famiglia Cristiana, articolo di Lorenzo Montanaro 01/06/2021)